martedì 28 febbraio 2012

Teatro Proibito


Un secolo di censura teatrale in Italia dall’Unità al 1962
a cura di Federica Festa

Una presentazione in versione semiscenica, come si conviene al tema dell’opera. Un saggio sulla censura in teatro con uno sconfinamento nel cinema e nella televisione per raccontare un’Italia che dice no alla libera espressione, ben al di là della chiusura dell’Istituto per la censura nel 1962.

“Teatro Proibito” - Un secolo di censura teatrale in Italia dall’Unità al 1962 a cura di Federica Festa
Roma, Sabato 25 febbraio alla Casa dei Teatri (Villa Pamphilij)
Sono intervenuti
Giancarlo Sammartano, Regista teatrale
Antonia Brancati, Autrice e concessionaria teatrale
Daniele Miglio e Rosa Inserra leggono alcuni brani di testi censurati
Editoria&Teatro

Una presentazione in versione semiscenica, come si conviene al tema dell’opera. Un saggio sulla censura in teatro con uno sconfinamento nel cinema e nella televisione per raccontare un’Italia che dice no alla libera espressione, ben al di là della chiusura dell’Istituto per la censura nel 1962. Anche un modo per evidenziare l’impatto ‘compromettente’ dell’arte sulla collettività con incursioni storiche a scomodare Aristotele fino ai più recenti giochi di potere. Il timbro ‘respinto’ o ‘non approvato’, sul dieci per cento dei copioni italiani o tradotti in italiano la dice lunga sulla vita difficile del teatro nel periodo preso in esame dal saggio critico; altra soluzione la dilazione dei tempi che, comportando ostacoli e costi in crescita, scoraggia lo spettacolo. A seconda dei periodi storici cambiano le parole prese di mira o i concetti tabù, non il merito.
Così nel Regno Sabaudo si censurano 342 copioni dove si rintracciano le parole libertà, tiranno, re, principe o barbaro; poi dal 1862 è vietata la rappresentazione di 29 testi su 30, da parte dei Prefetti, perché incentrati sulla figura di un eroe ormai scomodo, Giuseppe Garibaldi. Dal 1929 il Fascismo centralizza l’attività di ‘correzione’ dell’arte con l’istituzione di un ufficio preposto. Con il 1945 si cambia la forma ma non la sostanza, censurando la veste della morale pubblica più che la politica.
E’ la legge Fanfani nel 1962 ad abolire la censura preventiva dichiarando di voler eliminare “Ogni criterio di carattere politico nell’attività di censura”. Le battaglie cambiano stile e obiettivi, ma restano.
Il volumetto si annuncia gradevole e frizzante alla lettura, ricco di spunti con un’angolatura differente nel guardare lo spettacolo che, chi come me ha avuto la fortuna di imbattersi in regimi autoritari, conosce bene.
Tra i tanti aneddoti ed episodi, cito qua e là quelli che mi sono rimasti più impressi, senza seguire un ordine cronologico.
All’inizio degli Anni Cinquanta del Novecento, ad esempio, non si poteva scherzare sulle debolezze di Pietro e su Lazzaro, come aveva provato a fare Luigi Pirandello; e così sulla figura del ‘pellegrino’, tradotto in ‘forestiero’ nel titolo di una commedia napoletana dove si parlava dell’affitto dei ‘bassi’ napoletani ai pellegrini appunto. Non parliamo poi del Santo Padre, che valse a Bertold Brecht una battuta cancellata ne’ “I fucili di Madre Carrar”.
Pirandello fu attaccato anche per il suo “Cecè”, benché fosse un protetto del Fascismo: in quest’atto unico fu cancellato il riferimento a lettere e una sorta di richiesta di raccomandazione politica per i lavori al porto di Palermo che furono effettivamente eseguiti nel 1933. Con lungimiranza il Duce non volle però riferimenti diretti alla sua biografia nel teatro di propaganda. Naturalmente negli anni della dittatura autori e tematiche legati al mondo ebraico erano vietati, in particolare fu ‘tagliato’ Sam Benelli, autore molto amato a quei tempi. Anche il riferimento alla négritude venne eliminato e perfino “Otello” di Shakespeare allontanato dalle scene. Come pure fu proibita l’esaltazione del pacifico e dell’inutilità della guerra nell’opera “Leonida” di Franco Monicelli, perché la censura la riteneva offensiva per la memoria dei caduti e contraria allo spirito di una nazione. La censura raggiunse perfino le “Operette morali” di Giacomo Leopardi: il dialogo tra il sole e la luna fu tradotto dal regime dal “lei” al “voi” in segno di rispetto per l’autorità.
La donna è sempre stata uno dei bersagli preferiti dalla censura, basti pensare che nell’antichità e in alcune culture le è proibito recitare e calcare le scene, facendo travestire gli uomini nei ruoli femminili. Una donna non poteva tradire in scena, soprattutto se perdonata; e ancora al bando la parola ‘prostituta’ tanto che, non potendo rischiare di censurare Giuseppe Verdi, la “Traviata” venne tradotta in “Violetta”. Problemi affini ebbe Giulio Bragaglia, noto regista non amato dal Fascismo, con “La cortigiana” di Pietro Aretino, passata indenne nel Cinquecento ma non nel 1934; e ancora “La professione della signora Warren” di George Bernard Shaw.
Il “Peer Gynt” di Henrik Ibsen, nella riduzione di Vittorio Gassman dove venne censurata la parola ‘culo’. Mentre in “Viaggio di nozze” di Federico Fellini le ‘mutandine’ diventano un ‘reggipetto’ e viene vietato all’attore di restare sul palcoscenico in mutande nella prima notte di nozze. Una vera sforbiciata fu data a “La governante” di Vitaliano Brancati per la protagonista, una cameriera francese, bella, era omosessuale, calvinista e suicida. Per anni così Caterina, donna colta che incontra uno scrittore, non andò in scena. Stessa sorte per “Un marziano a Roma” di Ennio Flaiano. Personaggi come Dacia Maraini e Dario Fo sono finiti in carcere, per offesa allo Stato attraverso la loro arte.
In effetti, sotto mentite spoglie, ad oggi la censura è ancora vigile, basti pensare che in Italia i telegiornali vanno in differita di 5 secondi e nel 2006 l’adattamento della cantante Elisa dell’Inno di Mameli alle Olimpiadi di Vancouver fu vietato da Maurizio Gasparri perché ritenuto irrispettoso della tradizione nazionale.
In fondo già nel V secolo avanti Cristo in Grecia il teatro si era degradato o così era giudicato, tanto che il filosofo Aristotele a metà del IV secolo a.C. nella sua “Poetica”, quando parla dello scrivere corretto per il teatro, non cita mai la rappresentazione. E’ così che c’è una rottura tra pubblico da una parte, attori e registi dall’altra. La scena diventa pertanto aggressiva facendo perdere purtroppo molta della sua forza interiore. Oggi ci sarebbe di che parlare a proposito della volgarità e di quell’essere quasi sempre sopra le righe del teatro.
Nella tragedia greca i toni erano diversi perché, come si è ricordato nel dibattito di presentazione di “Teatro proibito”, Edipo entrava in scena già accecato e il suicidio non veniva mai mostrato. L’unico caso che ricordo è quello del “Filottete” che però si suicida dietro un cespuglio.
In questa scissione il teatro diventa volgare come nella commedia plautina o nel cedimento all’oscenità nel Cinquecento e Seicento, basti pensare al “Candelaio” di Giordano Bruno dove il maestro di scuola intrattiene rapporti omosessuali con i giovani allievi. Poi, come noto, il filosofo fu mandato al rogo ma per le sue teorie cosmogoniche che mettevano a repentaglio la visione teologica dell’universo. Bizzarro quanto meno.
Oggi resta diffusa l’idea che il teatro fa bene a chi lo fa ma fa male in generale come diceva del tabacco Anton Cechov.
All’incontro alla Casa dei Teatri ha partecipato anche Antonia Brancati, figlia di Vitaliano Brancati che, a parte un periodo giovanile di infatuazione per il fascismo, del quale egli stesso ricorda come di “un’ubriachezza di stupidità”, fu autore a lungo censurato.
“La governante”, della quale ho parlato poc’anzi, resta certamente nella memoria dei teatranti e fu un episodio particolarmente forte, tanto che Brancati scrisse poi un libello “Ritorno alla censura” in merito.
Lo scrittore siciliano pensava che l’avversione al teatro fosse legata già all’idea shakespeariana della rappresentazione come “arte eversiva” in quanto specchio della realtà, che fa male come la verità. Questa metafora fece dire a Pirandello che un uomo può impazzire guardandosi allo specchio e ad Eduardo De Filippo che lo ‘specchio’ è uno scostumato.
Brancati, dopo il 1934, allontanandosi dalla retorica dominante, abbandona le tragedie e i drammi epici per dedicarsi alla commedia con una vena satirica che interessò tutte le opere tra cui: “Le trombe di Eustachio” del 1942 dove prendeva in giro l’Ovra, la polizia segreta; il “Don Giovanni involontario” del 1943; il “Raffaele” di tre anni successivo; e ancora “Una donna di casa” (1950); fino alla famosa “Governante” del ’53, un anno prima della morte dell’autore.

domenica 26 febbraio 2012

La città infernale



di Laura Sales & Franco Barletta

Il libro mi è stato regalato dall’autrice e conosco anche il secondo autore per essere stato lo stampatore del mio Istant book I giorni del gelsomino. E’ difficile leggere il libro di una persona che si conosce bene perché probabilmente non si ha la giusta distanza. La conosco per aver assistito ad uno spettacolo di teatro danza del quale, come spesso nel suo caso – per non dire sempre – era Regista e interprete, “Donne argentine in fondo al mare” di Daniel Fermani, il drammaturgo argentino con il quale condivide il lavoro di mutua ispirazione; protagonista anche di questo testo e dell’origine del lavoro che ha dato come risultato il libro. E poi per aver condiviso una parte del mio viaggio nella danza terapia e nella scrittura per la quale mi è stata pungolo e conforto. Premetto, non per mettere le mani avanti, quanto per onestà intellettuale, la difficoltà di recensire un ‘libro non libro’ che, soprattutto grazie a qualche traccia didascalica di Laura, emerge come il risultato di un lavoro dietro le quinte di preparazione a quello che si può definire uno spettacolo involontario. Mi pare che la scelta di pubblicare il libro sia dovuta alla volontà di fermare il lavoro e la fatica sostenuti, riorganizzando percorsi, pensieri ed emozioni. E’ pertanto un lavoro, non di mera nota di memoria, ma di riflessione su un cammino di ricerca che successivamente è stato condiviso. In tal senso è importante capire il punto di vista perché di fronte ad un testo con una sua disorganicità strutturale si può altrimenti restare spaesati. Mi pare soprattutto un lavoro di testimonianza che dall’esterno può venir apprezzato a metà leggendolo; credo che il miglior modo per comprenderlo sia utilizzarlo per riprodurre e, per alcuni aspetti, produrre in modo originale il proprio tragitto nel lavoro dell’attore. Qualcosa di simile, mutatis mutandi, mi è successo con Gli esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, un testo sublime ma nel quale io mi sono cimentata in modo assurdo, per quanto l’esperienza sia affascinante, di lettura quale testo letterario. Tornando a’ La città infernale, comincerei proprio dal titolo, spontaneo, suggerito dal lavoro comune. L’allestimento dello spettacolo infatti è conseguente al lavoro di training per il quale è stato scritto il testo di Daniel Fermani, su richiesta di Laura Sales. In tal senso c’è un lavoro profondo e autentico, non calato dall’alto sugli attori ma di convergenza delle energie e delle emozioni. Il tema è quello di una festa macabra tra la vita e la morte nella città eterna che diventa infernale. Cinque personaggi, 4 donne e un uomo, attendono gli invitati sulla porta, costretti tutte le sere a ripetere la stessa storia, la propria, incompiuta, in un tempo ciclico, come quello dell’eternità immortale, che in qualche modo è la vera condanna. Al centro un abito da sera che si scoprirà stregato e maledetto dalla donna che lo ha cucito perché tradita. Nel testo si offrono solo spunti al lavoro del teatro inteso come vocazione e coinvolgimento dell’attore nella sua totalità di corpo e anima e per questo la centralità data all’esercizio fisico e di lavoro sulla propria corporeità. Si fa altresì cenno alle due scuole principali relative alla concezione del lavoro dell’attore, rispettivamente quella estetica del russo Stanislavsky e quella spirituale del polacco Grotowski, che rende l’attore uno strumento di risonanza prestato al testo teatrale per far vivere le emozioni al pubblico, attraverso la propria corporeità. Un altro elemento che mi pare sottolineato è la convergenza delle arti nel lavoro teatrale che è unitario e multiplo come la vita, tra parola, gesto, interpretazione, danza e immagine. Da qui la sperimentazione del disegno e dei bozzetti di Franco Barletta durante le prove generali e in scena in una condizione senza barriere e di immediatezza emotiva. Un testo che varrebbe la pena ordinare e sviluppare per renderlo più fruibile accompagnando il lettore lungo tutto lo stage.

La città infernale
di Laura Sales & Franco Barletta
p&i EDIZIONI

Sapore di pace


di Angelo Buonsante

Il sapore della copertina, per usare una parola del bel titolo del libro dello scrittore pugliese, di Conversano, Angelo Buonsante, è quello di un testo da catechismo per adolescenti, puro e fresco, forse non così allettante per il grande pubblico; e soprattutto per la seduzione diffusa dell’immagine ammiccante alla quale siamo fin troppo abituati. Il nostro autore, presentato a Roma in occasione del Giorno della Memoria, non sembra però cedevole alle facili tentazioni e al successo di stile televisivo. Non è un caso che il suo successo sia stato nella scuola. Questo è certamente un punto a suo favore, se si considera la fame di educazione sentimentale che c’è nelle nostre scuole e parimenti la difficoltà di penetrare nelle menti e in particolare nei cuori sempre più virtuali degli adolescenti distratti. “Sapore di pace” è un libro che riscopre il valore della semplicità, delle buone cose domestiche, di un mondo locale sano e scomparso. La scrittura accompagna piana con piacevole organizzazione del testo: una storia che scorre attraverso capitoli brevi, da leggere di un fiato o titolo per titolo. In effetti l’autore ci dice che sono racconti che potrebbero essere autonomi. Una bella trovata che ci accompagna nella storia di un’amicizia tra due ragazzi, Nino e Giosuè, uno cristiano e l’altro ebreo, violentata dalle leggi raziali, insieme alla loro giovinezza. La storia nella sua quotidianità di scuola, lavoro, una vita domestica raccolta e semplice, lascia trasparire valori profondi. Quelli veri che resistono alle avversità della vita anche quando i sogni vanno in frantumi. C’è qualcosa che resta oltre il dolore, come l’incantamento, il primo, di Nino per Pinuccia, le promesse fatte al padre, di continuare a studiare e a portare avanti la propria vocazione; mentre il tempo rubato non tornerà e per i più deboli cambierà un corso per sempre. E’ proprio il caso di Pinuccia che si ritirerà in convento non riuscendo più a integrarsi nella società del dopoguerra. Quello che mi colpisce è la freschezza e la delicatezza dell’autore che sfiora il disagio, l’irrealtà nel quale si precipita d’un tratto, l’inaspettato di ogni tragedia chiamata guerra, eppure non fissa l’obiettivo sull’orrore, ma lo sorvola, per accogliere la positività della pace. Il protagonista, anche nell’ultima parte, nel quale si scopre adulto, forse in là con gli anni, resta giovane nell’intimo. Bella e struggente la lettera dedicata alla nipote nella quale si dice che la vera libertà è la pace che mantiene vivo il dialogo tra gli uomini, inteso come accoglienza della diversità. In fondo Nino e Giosuè si accorgono di essere diversi solo quando vengono stigmatizzati per le loro credenze.

Sapore di pace
di Angelo Buonsante
Progedit
15,00 euro

Il gioco degli angeli



di Ljliana Habjanovic Diurovic

Ho conosciuto Il gioco degli angeli, titolo suggestivo ed insolito come l’argomento che tratta, in occasione della settimana della cultura serba a Roma (organizzata in termini di comunicazione da Zetema) e ho scoperto un mondo poco noto, seppure geograficamente vicino e, forse, più legato di quanto si immagini al nostro, andando a ritroso nella storia medioevale. Il poderoso volume ricorda in certo qual modo l’idea di una saga familiare anche se il racconto serra le file intorno ai protagonisti del nucleo familiare, pur numeroso, divenendo un vero inno all’amore coniugale. Le pagine scorrono piane e veloci malgrado l’impianto del romanzo storico intrecciato al romanzo d’amore. In questo caso tra l’altro i due generi sono funzionali l’uno all’altro nello stile quanto, soprattutto, nel contenuto. In quell’epoca per i nobili la Ragion di Stato era, se possibile, superiore all’etica e ai sentimenti familiari; pertanto la commistione diventa difficile da evitare. In questo libro il valore aggiunto in uno stile classico, con periodi ampi e costruiti a regola d’arte - talora frasi brevissime, di una sola parola, che ripetendosi si ampliano e si approfondiscono – è dato dal punto di vista, orientato sulla protagonista, la principessa serba cristiana ortodossa, Miliza, discendente della santa dinastia dei Nemanidi che tanta parte ebbe nella storia della Serbia medioevale. Al riguardo l’attenzione è all’aspetto psicologico, intimo, con particolare cura per l’analisi della sofferenza che nel romanzo sembra tutta al femminile. Ne esce un personaggio di grande fede e con una profondità di sentimenti rara, unita ad una forte determinazione e volontà, sebbene non abbia nulla di edulcorato. Nel suo essere genuinamente innamorato in modo pieno, completo e anche accorto per il marito Lazzaro, restando più moglie che madre, è ‘tremendamente’ moderna, quanto contraddittoria mamma imperfetta, talora più regina che custode dei figli. Altro tema da menzionare è quello del divino, così prossimo all’umano e non potrebbe essere diversamente dato che si parla di angeli custodi: il libro si sarebbe potuto intitolare anche la voce degli angeli, o il ruolo degli angeli o ancora, gli angeli visti, sentiti da vicino. E, ancora una volta è soprattutto l’angelo di Miliza che ci accompagna nel lungo cammino da quando poco più che bambina sogna gli angeli e i motivi premonitori, rivelazione del suo amore e destino legato a Lazzaro (futuro marito); fino all’angelo della morte che la guida nel suo ultimo viaggio, ormai serena, divenuta suor Eugenia. E’ questa la nota più originale del libro e credo di poter dire della sua eccezionalità nella letteratura. Anche in questo spazio, in certi momenti molto dotto, nella distinzione tra le varie sfere di angeli e i loro compiti, qualche dissertazione teologica appena accennata, il romanzo non si arena mai in una scrittura a tesi o didascalica ma ci fa partecipare del vissuto e dell’emozione dell’incontro con l’angelo, che potrebbe essere anche tradotto laicamente in ‘coscienza’.
Per quanto riguarda il primo dei temi, quello storico, sarebbe interessante poter approfondire la corrispondenza e le scelte del dialogo tra fantasia e realtà nella ricostruzione degli eventi, luoghi, costumi che solo chi conosce la storia di quel paese è in grado di fare e valutare. Quello che mi sembra prezioso è però che il tema dello scontro per il possesso dei territori, l’assurdità della guerra religiosa (contro i turchi), lo scontro di civiltà, attualizzando il linguaggio, sono categorie universali che si ripetono e che l’autrice riesce a rendere temi classici sui quali vale la pena tornare a riflettere. Così è il caso dell’acerrimo conflitto tra i due fratelli Stefano – primogenito destinato a guidare il paese, ad essere principe – e Vuk, educato ad essere secondo e mai rassegnato al non protagonismo. Questa è una delle vicende che personalmente mi ha colpita maggiormente del libro e che mette in luce a mio parere una distorsione del concetto di fede e affidamento quale sottomissione ad un destino. La madre si piega a quanto interpreta come volere divino ma forse oggi potremmo leggerlo come la manipolazione che gli uomini mettono in atto della religione (come se in una guerra ci fosse una parte giusta che rende lecito il nostro combattere). Miliza, infatti, in un frangente con quella che io definisco, crudeltà, cerca di convincere Vuk a cedere alla volontà del Signore che ha sicuramente stabilito il meglio in tal senso. Se lo avesse voluto principe, in effetti, lo avrebbe fatto nascere per primo. E’ la stessa logica inflessibile della dialettica della storia, del predominio dell’essere sull’esistente, del tutto sulla persona (all’origine poi di totalitarismi di varia natura) a far precipitare Miliza nel dolore per non partorire che figlie femmine e a trascurare l’ultima nata che un sogno ingannevole le aveva fatto credere sarebbe stato l’erede agognato. Il testo indubbiamente si nutre anche di una cultura e un sostrato sociale tipicamente medioevale nell’approccio con la religione che sconfina in una credenza magica, seppur la finezza psicologica dell’autrice lo renda decisamente moderno. Forse i passaggi più riusciti sono proprio quelli nei quali emerge il conflitto interiore della protagonista, del suo essere sul crinale della vita che impone una scelta continua, di fronte alla quale anche l’uomo profondamente religioso non sa arrendersi.
La scrittrice, nata nel 1953 a Krusevac in Serbia (dov’è ambientata la vicenda) – forse destinatario vero del romanzo (che potrebbe essere riletto come un inno d’amore alla sua patria) - è molto nota nel suo paese e profondamente amata; super premiata, questo libro è stato riconosciuto il romanzo straniero più venduto in Russia nel 2010.

Il gioco degli angeli
Ljljana Habjanovic Djurovic
SECOP Edizioni
20,00 euro

Sala Umberto


vita di un teatro, storia di un’epoca

di Donatella Orecchia

Il saggio di Donatella Orecchia è un libro prezioso, da sfogliare e risfogliare, piacevole per la ricchezza delle immagini e dei documenti a corredo; ma anche da consultare e di facile lettura. E’ insieme didattico e intrigante, con un parallelismo storico - che ci accompagna in 130 anni di storia di questo celebre teatro romano – tra la biografia della Sala Umberto, la storia del teatro italiano e la cronaca degli eventi politici e, in generale, l’evoluzione del costume della società, dei gusti e dei desideri del pubblico. Il testo è corredato da documenti di archivio, immagini di repertorio, frammenti di cronaca del tempo, testimonianze inedite. Le pagine prendono per mano il lettore dai tempi del Café-chantant e del Varietà; fino alla Rivista; al ritorno al classico aperto alle influenze dell’Europa, dell’America, del jazz e della musica nera; per poi sposare il cinema, intrattenimento dell’Italia del boom; fino al ritorno alle origini. Oggi la Sala Umberto conferma la propria vocazione: un teatro comico d’autore che trova posto per ogni tipo di pubblico. Così era già ai tempi di Ettore Petrolini, quando la sua comicità salace e spesso irreverente era comunque vestita della dicitura ‘spettacoli per famiglie’. Questo teatro è infatti specchio di una Capitale moderna, con tutte le contraddizioni di una grande città: aperto alla tradizione aristocratica di un pubblico colto come alla massa. La scelta della comicità d’altro sposa l’idea che questo genere rivela più di ogni altro un’epoca come un specchio. Oggi la Sala Umberto si è arricchita anche della produzione, dal 2006, aprendosi a lavori non solo comici e al teatro per i ragazzi per rispondere ad una domanda sempre più articolata. Nell’insieme il lavoro dell’autrice è scrupoloso senza essere accademico, alternando il dialogo e le confessioni delle testimonianze, al racconto in un buon mix.
L’esordio di questo luogo è nel 1882, all’indomani dell’Unità d’Italia, e segue da vicino la trasformazione di Roma che assume gradualmente le sembianze di una moderna capitale, quello che dovrebbe recuperare oggi. L’indirizzo è sempre lo stesso, via della Mercede 50, a due passi dal Parlamento. Il teatro accoglie quell’intreccio di cultura alta e bassa, recuperando dalla trascrizione napoletana l’originalità francese del Café-chantant.
Dal 1905 al 1920 è la grande stagione del Varietà, un periodo di grande rivolgimenti: una stagione prodiga come poche altre di scrittori di rilievo e ad un tempo di forte affermazione della cultura di massa. Tale contraddittorietà si riflette anche nel teatro, con un’evidente commistione di generi. E’ il momento della spettacolarità del circo e del teatro di strada insieme con la cultura alta e le prime sperimentazioni cinematografiche. Sono gli anni di Ettore Petrolini, uno dei protagonisti della storia di questo luogo e, dal 1910, di Elvira Donnarumma, cantante che per una lunga stagione apre la stagione della canzone napoletana.
Petrolini, come scrive Bragaglia, scolaro della canzone napoletana, ne supera l’impianto e il gusto ottocentesco con i suoi fronzoli, trasformandola in alluminio e modernità corrosiva. Con Nicola Maldacea, poi, trionfa la macchietta, ovvero la caricatura di un tipo.
Con l’affermazione del fascismo si chiude la stagione del grande Varietà con l’imborghesimento della società e l’ascesa del conformismo nella cultura. Arrivano le sciantose, un certo esotismo di maniera e qualche influenza della musica nera.
Dal 1921 al 1946 è la rivista che trionfa e nel 1943 il sipario riapre con soubrette e jazz. Dopo la Guerra in generale c’è una ritorno alla normalizzazione e allo stesso tempo un desiderio di lusso. Non mancano le eccezioni con personaggi fuori dell’ordinario come Antonio De Curtis, noto come Totò, uno dei protagonisti di quella stagione. Continua l’invasione della cultura americana, anche dopo il 1925, così il teatro segue insieme i binari della tradizione come le innovazioni. Passano da questo teatro personalità come Macario, Titina, Peppino ed Eduardo De Filippo. Per alcuni anni diventa una sala cinematografica e, quando riapre nel 1946, è la volta di Totò-gagà e Anna Magnani-gaganella. Negli anni si succederanno personaggi del calibro di Walter Chiari con una stagione di puro divertimento.
E’ stata a lungo una sala riservata alle proiezioni cinematografiche fin quando nel 1981 Luigi Longobardi rileva l’attività e si trova nelle condizioni di ricostruire un senso. L’anno seguente passa sotto la direzione dell’ETI. Sono gli anni di Peppe Barra, i fratelli Giuffrè, ma anche Paolo Poli, uno degli ospiti affezionati che raccontandosi ha dichiarato “le amenità e le canzonette sono sempre la mia forza”.
Nel 2002, dopo una ristrutturazione, la Sala riapre con lo spettacolo di Peter Stein Femmine fatali, protagonista Maddalena Crippa. Tra i tanti temi di questi anni c’è la commedia napoletana interpretata da Claudio Buccirosso, o la satira graffiante con uno sguardo all’attualità di Francesca Reggiani, fino all’intrattenimento da salotto, allo spettacolo d’autore e molto altro.

Sala Umberto
vita di un teatro, storia di un’epoca
di Donatella Orecchia
Edizioni Progetto cultura
20,00 euro

I cani di Roma


di Conor Fitzgerald

Roma è conosciuta per i gatti e questo titolo suona curioso, ma presto si scoprirà che tutta la vicenda del giallo ruota intorno ai cani, più precisamente alle scommesse clandestine della malavita romana. C’è chi i cani li ama come Arturo Clemente, vittima per il proprio impegno nella battaglia animalista, di un assassinio, apparentemente casuale. Chi, come la sua amante li ama senza impegno; chi – si intuisce – li ama in modo maniacale e più degli esseri umani; chi, infine, li usa come il padre dell’amante del protagonista dell’accaduto. La vittima, lo sapremo dalla moglie, la senatrice Sveva Romagnolo, donna in carriera apparentemente fredda e presa dalla politica più che dallo stesso figlio - tanto che ha finito per tollerare l’infedeltà del marito - amava i cani con buon senso, sapendo che quelli da combattimento vanno soppressi perché non possono vivere nella società umana, essendo stati programmati solo per ammazzare. Dai cani si parte, ai cani si arriva, nell’unica concessione di spazio alla vita privata del protagonista del libro, il commissario Alec Blume, che finisce per essere accompagnato da un cane, in volo per New York, inseguendo una donna che probabilmente non lo stima, consapevole che forse sta sbagliando qualcosa. Certo si lascia alle spalle un collega morto, la diserzione di un altro, un assassino fatto fuori prima di essere catturato; e ancora, la delusione di essere stato distolto dall’indagine principale per occuparsi di una vicenda di gente comune, nella quale si immerge con dedizione per amore di una ragazzina alla quale vuole restituire la verità anche se non potrà mai renderle la perdita che ha subìto. E’ questo un secondo spunto del personaggio discreto che esce dalla penna dell’autore, non un eroe, affascinante, come ormai siamo stati abituati a conoscere dal piccolo schermo il mondo dei commissari. Blume è un tipo discreto, colto ma senza sfoggi, decisamente low profile, che conduce le proprie battaglie controcorrente senza clamori, fuggendo gli stereotipi dell’opposizione e dell’irriverenza, ormai altamente etichettate dalla letteratura di successo. In una scrittura piana, semplice, non priva di padronanza ed eleganza, Conor Fitzgerald, muove i fili di una trama intricata quanto basta per essere avvincente, senza troppi colpi di scena. Nato a Cambridge nel 1964, vive in Italia da molti anni, dimostrando padronanza della lingua e ottima familiarità con l’ambiente romano, sia quello ufficiale della politica, sia quello sotterraneo delle periferie malavitose. Lo scenario, ideale , per una realizzazione cinematografica, mostra come la politica a braccetto con l’informazione tele-pilotata, penetrino le maglie di tutto il vivere sociale della post modernità, nella Capitale, più che altrove.
Gli aspetti più interessanti sono proprio le tessiture non emergenti, dall’intrigo sottile dei piccoli ricatti giornalistici, alla morbosa curiosità senza scrupoli fonte del successo; alla necessità di difendere l’immagine a tutti i costi per il consenso politico, più importante della stima stessa. Ne è prova la rabbia della vedova di Clemente, umanizzata solo nel veder soffrire il figlio, indignata per una trasmissione televisiva che racconta della complicità erotica del marito con la figlia di un certo Innocenzi, nel giro delle scommesse clandestine, che potrebbe danneggiarne l’immagine, inquinare quella di puro animalista, e di conseguenza quella di lei, ora vedova.
Altro pregio del libro, la figura discreta del Commissario, come già accennato, in un mondo che premia solo gli eccessi. E’ un uomo che si apprezza a poco a poco, screditando in parallelo, il mondo delle forze dell’ordine che ci appare l’altra faccia della malavita.
Sullo sfondo, una Roma da cartina ingrandita, con lo stradario in primo piano, lo zoom che si alza e si allarga sui diversi luoghi, caldo e odore di sangue stantio, rumori di traffico, armi da fuoco, suoni di telefonini e l’abbaiare dei cani. Una Roma molto più familiare e vicina di quanto abitualmente si pensi. Non si può fare a meno di pensare a “Romanzo criminale”.
In Gran Bretagna è già uscito il secondo appuntamento del Commissario Blume.

I cani di Roma
di Conor Fitzgerald
Ponte alle Grazie
18,60 euro

sabato 25 febbraio 2012

Non ho più paura


Tunisi. Diario di una rivoluzione

a cura di Francesca Russo e Simone Santi - Gli italiani di Cartagine, Collettivo

Quasi un anno dalla Rivoluzione tunisina e le celebrazioni che si avvicinano portano a rivivere quei momenti soprattutto per chi li ha vissuti in diretta, in modo partecipato anche se non da tunisino.
“Non ho più paura” è in questi giorni in tournée in Italia e toccherà la città di Firenze il 14 gennaio, primo compleanno della rivolta del popolo tunisino. L’occasione è lo spunto per rileggere un libro di amici di amici, conosciuti grazie alla rete che si muove tra Italia, Francia e Tunisia, di persone che scrivono per diletto, per impegno interiore o per mestiere – o per tutte queste ragioni insieme –e immediatamente vicini per l’empatia di un sentire e volere comune.
“Gli Italiani di Cartagine” è lo pseudonimo scelto dagli autori, ma è soprattutto il nome con cui la gente del quartiere si riferiva alla loro famiglia di italiani residenti a pochi isolati dal Palazzo presidenziale, nelle giornate in cui il popolo tunisino proteggeva se stesso e chiunque fosse loro vicino – compresi les italiens - dalle milizie di Ben Ali. Dietro questo collettivo ci sono in particolare Francesca Russo e Simone Santi, che reggono le fila di un gruppo fatto anche di gente comune che si è resa disponibile a testimoniare. E’ infatti un diario corale, dove di volta in volta si isolano delle voci. Gli Italiani di Cartagine sono nella vita di ogni giorno una giovane coppia, lei antropologa e lui economista. Vivono a Tunisi da tre anni con due figli piccoli, dopo oltre dieci anni spesi tra l’Africa, l’Asia e le Americhe seguendo la passione condivisa per i paesi in via di sviluppo e lavorando per varie organizzazioni internazionali. Tra le testimonianze, in presa diretta o raccontate ci sono Stefania Danzi, Najib Chouaibi, Mourad Ben Cheick, Carlo Svaluto Moreolo, Saoussen Ben Romdhane, Silvia Costantini, Simone Santi, Jaouher Dalhoumi e Monique Vassart, alcuni dei quali sono anche miei amici. La scelta degli autori è infatti di lasciare un grande spazio alle voci e alle testimonianze, raccogliendo il sentire a caldo da punti di vista diversi.
Ho ritrovato nella scrittura fresca di pagine che scorrono veloci, preziose per chi si avvicina per la prima volta all’universo tunisino, la ragione di raccontare e rivivere, condividendo, la propria esperienza in quei giorni. In particolare l’idea di questo libro nasce una sera a Cartagine, alla vigilia del 14 Gennaio, una data destinata a cambiare la storia del Paese. “L’atmosfera - si legge nell’introduzione - è quasi surreale: sono le ore che precedono il compiersi di un “evento” non ancora definito, in un’attesa che combina emozioni, aspettative, paure. Impossibile distogliere l’attenzione da questo intensissimo e frenetico flusso di informazioni, che inevitabilmente i giornali on-line rilanciano con timidezza ed in ritardo. E’ più forte di noi, dobbiamo continuare a monitorare le ultime informazioni”. Il clima di sospensione surreale, di incredulità profondo e insieme un dovere istintivo di testimoniare è quello che ha mosso anche me nella scrittura.
Condivido la loro analisi: la rete Internet, finalmente libera dalla censura, si infiamma, mentre i media ufficiali sono lenti, ripetitivi, approssimativi. E’ sconvolgente la distanza italiana da una realtà così prossima. Qui si parla di rivoluzione del pane e la tesi, che verrà sostenuta per mesi, è sbagliata. Non è stato capito nulla.
Il parallelo che scatta immediatamente è con il 9 Novembre 1989, quando con la Caduta del muro di Berlino, si genera l’effetto domino nell’Europa dell’Est; analogo destino è toccato alla Tunisia nel mondo arabo.
Parte così il progetto libro: un viaggio nei 30 giorni che portarono alla caduta della dittatura. “Non ho più paura” è il racconto di una cronaca ma anche il tentativo di capire perché è scoppiata la rivolta, perché in quel momento, in nome di cosa. La risposta è nella ricerca della dignità, Karama, come tutti i tunisini hanno cercato di dire, sentendosi offesi dalle interpretazioni romantiche della “Rivoluzione dei gelsomini” o spicciole, che l’hanno bollata appunto come "Rivoluzione del pane”.
Interessante l’excursus sull’ascesa di Ben Ali, la strumentalizzazione degli organi di stampa di massa, lo spettro dell’islamismo agitato per giustificare l’instaurazione di un regime forte, tanto che, dopo il 2001, la Tunisia diventa il fiore all’occhiello della lotta al terrorismo, complici paesi come l’Italia che hanno aiutato l’ascesa di Ben Ali e il suo colpo di Stato.
Il dramma delle torture è ignorato ma è atroce. Verso gli intellettuali la censura è pesante. Dal 2009 “Le Monde”, ad esempio, non è più distribuito per aver osato criticare i risultati delle elezioni concluse con una maggioranza bulgara, a dir poco sospetta.
La mia posizione è allineata con la sensibilità degli autori e questo dimostra che chi sa guardare ed è disponibile ad ascoltare vede le stesse cose perché sono molto evidenti ma, come io stessa ho denunciato, gli italiani sono stati ingannati dalle vacanze all inclusive, economiche e gustose, gli imprenditori da un regime fiscale sostanzialmente off shore, bassi costi, ambiente favorevole e gradevole.
Intanto la corruzione soprattutto quella legata alla famiglia della moglie, i Trabelsi, dilagava.
Quando comincia realmente la rivoluzione? La scintilla è il 17 Dicembre 2010 ma già la rivolta del bacino minerario di Gafsa nel 2008 aveva posto le basi della ribellione.
Negli ultimi anni l’ascesa della dittatura è vorticosa e sembra inarrestabile, tipica accelerazione progressiva da fine regime. Infatti gradualmente il marciume trapela fuori dai confini del Paese grazie ad intellettuali coraggiosi che fanno da sponda con la Francia. A quel punto un campanello d’allarme suona: il mondo sa. “L’operazione WikiLeaks – si legge in un passaggio del testo - rappresenta un altro passaggio chiave nel preparare il Paese alla rivoluzione: i documenti diplomatici pubblicati nel Dicembre 2010 mostrano a chiare lettere il punto di vista della diplomazia americana riguardo al regime di Ben Ali. Si tratta di un giudizio molto severo che mette in evidenza come la politica tunisina sia troppo concentrata e dipendente dalla figura del Presidente, come la libertà di espressione sia limitata, la corruzione regni sovrana e i problemi sociali siano veri e da risolvere al più presto”. Lo sviluppo dei media è infine un elemento che giocherà un ruolo molto importante nei giorni successivi: nel continente africano, la Tunisia è uno dei paesi più avanzati nelle tecnologie d'informazione e comunicazione. Non a caso è Tunisi ad ospitare il secondo Congresso Mondiale sulla Società dell’Informazione, nel 2005. Ma saranno i Social Networks a giocare il ruolo determinante, Facebook in testa. L’episodio di Sidi Bouzid, evidentemente i tempi sono maturi, mostra la contraddizione tra il Nord e la costa piena di turisti, di attrazioni e di modernità e l’interno del Paese, abbandonato a se stessa. Il cancro del regime appare in tutta la sua evidenza: sotto la scorza della famigerata laicità, della ricchezza, dell’apparenza, tutto è putrescente.
Questa volta la gente non tace: 4/5 grandi famiglie si parlano; l’indomani è il giorno del mercato locale e la notizia si amplifica, quindi dilaga. Poi si accende il megafono di Facebook dalla Tunisia al mondo, andata con ritorno. Due giorni dopo il sacrificio di Mohamed Bouaziz, la stampa tunisina è ancora in silenzio. Nel quotidiano “La Presse”, il più venduto nel paese, non si trova alcun riferimento al sacrificio del venditore ambulante Mohammed Bouazizi. Anzi, le pagine si riempiono di notizie sulle celebrazioni in Tunisia del primo anniversario dell'Anno Internazionale della Gioventù iniziato da Ben Ali, con messaggi diversi di varie personalità che rendono omaggio al presidente per il suo sforzo in sostegno ai giovani.
La rivoluzione nel frattempo è scoppiata, la gente è incontenibile; la violenza della polizia anche ma presto si arrenderà.

Progetto Colors
Parte del ricavato dalla vendita di questo libro verrà devoluto al progetto Colors, che sostiene l’integrazione di bambini tunisini e di altre comunità di immigrati in Italia attraverso il basket
www.progettocolors.com (pagina Facebook “Giovani, culture e colori: l’integrazione fa canestro”). Un’ulteriore iniziativa del Progetto Colors è stata attivata dal 2009 presso un orfanotrofio nella periferia di Maputo (Mozambico).


Non ho più paura
Tunisi, Diario di una rivoluzione

Francesca Russo e Simone Santi, Italiani di Cartagine
Gremese Editore
12,90 euro

Un altro albero di Gulmohar


di Aamer Hussein

Ho conosciuto Aamer Hussein a Roma alla libreria L’Argonauta in occasione della presentazione di questo libro e mi è piaciuto questo scrittore anglo-pakistano, noto in Inghilterra ma ancora poco conosciuto in Italia. Nato nel 1955 a Karachi, in Pakistan, vive a Londra dal 1970. Si è laureato all’University of London dove ha studiato Urdu, Persiano e Storia. Svolge attività di critico letterario e traduttore e ha scritto numerose raccolte di racconti, tra le quali Mirror to the sun (1993), This other salt (1999) e Turquoise (2002). Mi ha colpito di lui la sua dolcezza e semplicità, un tono sornione e così poco impostato tanto da non sembrare un intellettuale, almeno quelli da palcoscenico che ormai imperano nei salotti italiani, soprattutto televisivi.
Ho riscontrato un candore nella sua presentazione, come fosse l’uomo del pianerottolo, il vicino di casa ospitale con il quale fare amicizia, pronto a raccontare la sua storia, una tra le tante. Solo che si tratta di un percorso avventuroso soprattutto linguisticamente parlando. E’ un uomo che si scrive in inglese, pensando in inglese e ritenendo questa lingua non come quella di un colonizzatore ma lo strumento per essere internazionale, a testimonianza che le cose sono anche quelle che si vogliono vedere. Un fine conoscitore dell’urdu, la sua lingua madre, del persiano e fine oratore in italiano. La sua cultura mi è apparsa subito non una forma di erudizione raffinata quanto un gioco dell’animo dove l’inclinazione autentica alla conoscenza, spinge all’ascolto dell’altro e all’empatia, rappresentata prima di tutto dalla lingua. Il suo punto di vista ci appare non semplicemente integrato ma multifocale, metabolizzando le differenze in una sintesi originale che è nuova ed estremamente personale. Lo stesso approccio emerge allorché si immagina di definirlo in un genere letterario, difficile da definire semplicemente romanzo, novellistica, cultura popolare. E’ una narrativa che attinge, cita e rielabora ad un tempo elementi del racconto popolare, del romanzo e della cronaca attuale. Al centro del libro vi è la storia delicata d’amore di due giovani inserita in un contesto di grande attualità: il multiculturalismo, la nostalgia delle origini, la fascinazione della scoperta di un mondo nuovo e talora la difficoltà di superare la diffidenza altrui. In ogni caso emerge, in una scrittura semplice, per certi versi ingenua – lontana da ogni schematismo e volontà di procedere per tesi – il bisogno di imparare la lingua dell’altro per entrare in sintonia. “L’ultimo albero di gulmohar” è una storia d’amore in viaggio dalla Londra del dopoguerra al Pakistan: il viaggio di Lydia per raggiungere l’amato Usman che è anche un cammino ideale alla scoperta del mondo interiore dei protagonisti con rievocazioni di atmosfere fiabesche. Il raggiungimento avverrà con una conversione non richiesta e la scelta di cambiare nome: sunt res in nomina. Ma il viaggio nella geografia antropologica non ha fine: è un percorso a tappe, nel corso del quale ogni tappa successiva diventa un nuovo inizio, con un perdersi e un ritrovarsi che è proprio di ogni storia reale, del superamento costante del sé nel dialogo con l’altro. I due protagonisti al momento dell’incontro sono già entrambi divorziati e, dopo la prima parte più visionaria del testo con l’inserimento tipico della letteratura classica della favola, si è catapultati in una storia di ordinaria quotidianità. Nello stesso tempo questi due cuori già sperimentati hanno l’ingenuità, la delicatezza e una timidezza che li rende personaggi da fiaba, non senza rinunciare ai sentimenti forti. Sullo sfondo il gulmohar, l’albero di fuoco, trapiantato dal Madagascar nel subcontinente indiano, simbolo del fecondo abbraccio tra due culture destinato a generare splendidi frutti, albero del fuoco.

Un altro albero di Gulmohar
Aamer Hussein
LA LEPRE EDIZIONI
16,00 euro

Mamma non si nasce


Diario semiserio di una donna che scopre come si diventa mamma

di Serena Sabella

E’ curioso come sia arrivata a leggere questo libro che dimostra quanto l’informazione circoli in rete. Quest’estate ho ricevuto un sms dall’autrice alla quale aveva lasciato i miei recapiti una mia amica leccese, Alessandra Pizzi, ospite in molti articoli di queste pagine e in diverse foto, organizzatrice di eventi culturali ed in particolare letterari. Lo spunto è stato il concorso letterario che io ho aperto su questo blog “La maternità tra incubo e sogno – la maternità importa e la maternità negata”, nato a sua volta dal mio racconto “Buonanotte ‘Aycha”. Un viaggio lungo e suggestivo, finché ho ricevuto il libro di Serena., giovane scrittrice salentina, sposata a 21 anni e poi in pochi anni due volte mamma, bismamma come recita il suo blog. Fin dalla lettura delle poche righe di biografia – devo ammettere – ho provato un certo sconcerto, piacevole: mi è sembrata una storia singolare al giorno d’oggi. Nella mia vita non avevo ancora conosciuto una ragazza sposata così giovane. E’ il sogno che avevo sempre avuto, battere mia mamma di un anno. Chissà poi perché. In effetti ero ancora in una fase di dialogo competitivo con il femminile e a dire il vero non mi ha tuttora del tutto abbandonata. La sorpresa si è rivelata maggiore quando Serena si è svelata un’autrice pop, fin dalla copertina accattivante, con un linguaggio vicino, direi adesivo, rispetto al mondo Internet e della comunicazione via messaggi. Forse questo contrasta con il mio immaginario di mamma giovane, regolarmente sposata. Improvvisamente mi sono sentita come un’anziana professoressa di lettere, di fronte allo scritto di un’adolescente. Ho sentito nella separazione di poco più di dieci anni, il corso di un’intera generazione. Il libro anche negli inserti, le cosiddette “Pillole rosa”, ovvero consigli sulla maternità e dintorni, è sempre spumeggiante, immediato, con un tono colloquiale che a me appare singolare perfino da usare con se stessi. Malgrado l’ansia confessata in ogni fase sul’argomento figli, ha un singolare tono scanzonato nel vivere la vita e certamente una buona dose di autoironia. Si finisce per ridere perfino nelle situazioni più critiche per la nostra protagonista. Emerge il senso di pienezza, di appagamento generato dalla maternità, malgrado l’estenuante fatica del quotidiano, e il fatto che l’idillio dipinto a tinte pastello sia molto lontano dal reale. Solo che è la nostra vocazione più intima e non se ne può fare a meno, sia essa innata o acquisita, alla fine poco importa. “Mamma non si nasce”, dichiara infatti Serena eppure a me sembra che lei lo sia stata da sempre, anche se rifiutando l’idea di essere quasi destinata dal mondo a questa missione, salvifica per altro del genere umano, in quanto femmina. Una donna che ad appena 21 anni, dopo un mese e mezzo di matrimonio, sente forte la spinta al desiderio di un figlio, la definirei una supermamma, con tanto coraggio. Il problema è semmai disattendere le aspettative altrui o non ricevere dagli altri il supporto che si desidera. Emerge nelle pagine la differenza uomo-donna, nel senso pratico e spicciolo da una parte; romantico e ansioso, dall’altra. Certo è che IlMaritoIdeale, come Serena chiama il proprio, mi sembra davvero tale e di singolare maturità. Altro tema scottante, nel quale mi sento visceralmente vicina, la distanza dei medici dall’unicum del nostro sentire quando si tocca la sfera dell’intimità, dalla loro indelicatezza, alla trascuratezza del pudore e così via. Infine, ripenso al titolo. Mi aveva completamente sviata e avrei immaginato un libro totalmente diversa, una donna adulta che non si è mai sentita mamma e lo scopre a poco a poco. Ma questa è un’altra storia. Serena ci dice semplicemente che il sentimento materno, ancorché ancestrale, è comunque un sentimento umano, con tutte le incertezze e le fragilità per cui non basta fidarsi del proprio istinto. Anche i sentimenti d’altronde vanno educati e coltivati.

Mamma non si nasce
Serena Sabella
red!
10 euro

Tutti i miei no


Opinioni di un uomo libero

di Fabrizio Cerusico

Il formato quadrato di Tutti i miei NO richiama lo stile incisivo ed elegante di molti inviti ed in effetti così può essere interpretato. E’ una raccolta di frasi, immagini, aforismi, quelli del “DoctorC”, lo pseudonimo con il quale Fabrizio Cerusico, medico specializzato in ostetricia e ginecologia a Roma, firma gli eventi e i progetti del’Associazione “La nuvola nella valigia”. L’Associazione ONLUS, alla quale ha dato vita insieme alla moglie e collega Monica Antinori, nel titolo richiama lo stile iconopoietico, semplice e diretto, del libro. E’ il sogno, per l’autore, diritto dovere di ogni persona, leggero come una nuvola ma a portata di mano. E’ il sogno che si può portare in valigia e ha un senso solo se si può portare sempre con noi. I no raccolti nel breve testo rappresentano l’esclusione della cultura della morte o comunque della pietrificazione della vita, rappresentata talora dal vitalismo o dall’attaccamento eccessivo alla vita, come nel caso della competizione sfrenata, alla quale Fabrizio dice, appunto, no.
Ogni no nasconde un sì, all’io più autentico lontano da tentazioni egoiche. L’autore sembra infatti annunciare un unico comandamento, il dovere di difendere la sacralità della vita, dal quale derivano tutti gli altri. Se la vita è sacra, infatti, non esiste ateismo e nell’amore verso il creatore e la creatura c’è insieme amore di sé e quindi amore degli altri. Il libro, come una rappresentazione teatrale per quadri espositivi, è un viaggio in tutte le dimensioni della vita alla ricerca di una dimensione originaria ed essenziale senza semplicismi. Per questo Fabrizio Cerusico dice sì al Cristo e no ai suoi seguaci che si sono allontanati dalla quotidianità della vita; in tal senso il libro, leggibile a più livelli, potrebbe essere un singolare catechismo per l’infanzia al di là di ogni appartenenza religiosa: semplicemente un’alfabetizzazione alla vita, dalla quale, ad esempio, discende l’ecologia.
Nella prefazione di Lorenzo Ostuni il nostro autore appare come un “guerriero moderno”, una connotazione che mi fa riflettere su un tema da me recentemente analizzato, il femminile guerriero e la partecipazione delle donne alle rivoluzioni (Affaritaliani.it, 17 Novembre 2011). Mi sembra, infatti, ci sia un filo conduttore comune nel dire no alla guerra ma sì alla rivoluzione combattuta con le armi della coscienza. Sfogliando le pagine di questo libretto, emerge a mio parere l’essenza più profonda del femminile, come invito all’ascolto degli altri, alla fede nella vita e alla donazione autentica di sé. “Un figlio non è una protesi, non è una stampella: generarlo con queste intenzioni è un atto di narcisismo egoistico”, ci suggerisce in un passaggio. Avvicinandosi al Natale, rileggo un altro passaggio, illustrato con dei girasoli, fiori sacri della vita, “A tutte le religioni, perché hanno sempre torto, mentre tutte le preghiere hanno sempre ragione”.
Tutti i miei No è una sorta di atto unico dove, ad ogni pagina, in alto, la voce della coscienza viene richiamata con un “dico No” scritto su un sipario sospeso di carta nera stropicciata che ricorda certi Cretti di Burri, dove la vita è incenerita. Chi ha il coraggio di vivere quest’invito potrà affacciarsi sulla vita.

L’incasso della serata di presentazione – il 5 Dicembre alla Sala Umberto di Roma, ore 21 - servirà all’acquisto di un’auto Renault Kangoo per la Ryder Italia, l’associazione romana di medici di base, oncologi, psicologi e volontari che assiste quotidianamente a domicilio malati cronici e terminali, sostenendoli sia dal punto di vista medico, sia da quello psicologico.

Tutti i miei NO
Opinioni di un uomo libero

di Fabrizio Cerusico
Progetto ONLUS La Nuvola nella valigia
Ottobre 2011

J'ai tué Schéhérazade


Confessions d’une femme arabe en colère

di Joumana Haddad

Ho trovato questo libro nella libreria Mille Feuilles del quartiere La Marsa a Tunisi e mi ha conquistata la foto di copertina e il nome dell’autrice della quale avevo sentito parlare spesso senza aver avuto l’occasione di leggerla. Certo il titolo è evocativo e il testo ribalta l’immagine che io avevo sempre avuto di Schéhérazade, un simbolo positivo di femminilità, per me l’equivalente della seduzione intelligente, che conquista con la fantasia e il cuore, non con il corpo. La vicenda è nota da Mille e una notte. La principessa non si concede e quindi non firma la propria condanna a morte, rinviata all’infinito, nell’incantamento del suo raccontare che ammalia il principe. Per l’autrice, giornalista e scrittrice libanese, poliglotta, è sì un simbolo di vittoria ma anche di negoziazione, nel senso che è una femminilità che sopravvive perché rinuncia a qualcosa di sé, per essere rispettata dall’uomo. Forse qui, come in altri passaggi del testo, la posizione di Joumana è un po’ esasperata perché credo che una donna sia anche accoglienza del diverso che implica necessariamente un adattarsi per se-ducere appunto, per incontrare il linguaggio dell’altro. Per l’autrice invece mai crimine fu così gioioso e morale perché, pur non definendosi femminista, non ammette nessuna spinta per ricondurre la donna ad un’immagine precostituita, così come ricorda quando lo zio le regalò una bambola e una cucina attrezzata per giocare. Forse chi esce da una situazione di costrizione ha una reazione che non è contenibile e che scivola in una proposta altrettanto estrema, sebbene – è corretto riconoscerlo – Joumana torna a precisare più volte nel corso della narrazione che la femminilità è vivere profondamente la propria vocazione, quale che sia, quindi anche occuparsi solo della casa e dei figli. La domanda iniziale dalla quale parte il saggio, che insieme un’autobiografia, è se esista una donna araba. La risposta è che non si tratta di un genere uniforme e, soprattutto, che non tutte le donne arabe, sebbene religiose praticanti e velate, siano per queste ragioni sottomesse; così come, parimenti, al di là dell’apparenza, non è detto che tutte le donne cristiane siano emancipate e libere. Certo, sottolinea la scrittrice, essere donne arabe oggi, significa aver dovuto elaborare una sorta di schizofrenia. Il mondo arabo sta infatti esercitando una dittatura, che grava in particolare sulle donne, che mira al predominio del gruppo sull’individuo, ovvero sul controllo della libertà e creatività personale. In tal senso l’Islam è il peggiore nemico di se stesso. A questo parametro Joumana si ribella, sfidando le regole del suo mondo, e fondando un magazine, “Jasad”, corpo, per parlare di erotismo. In effetti questo progetto non è che un punto di arrivo, sebbene intermedio, di un percorso che parte dalla fine dell’infanzia nella quale l’autrice si sottrae al mondo dei giochi e perfino di alcune esperienze, per entrare nel mondo dei libri che rappresentano la sua vera trasgressione. Si getta a capofitto quasi con un accanimento in letture che la portano nel mondo trasgressivo di De Sade e della letteratura erotica in genere. E’ un’inclinazione nella quale mi sono riconosciuta ampiamente rivendicando il diritto alla trasgressione intellettuale ché l’arte non può avere confini e limiti che ne castrano l’ascesa, sebbene i confini dei comportamenti devono invece, a mio parere, essere tracciati rigorosamente. Joumana parla di una vera e propria ossessione, anche pericolosa, che ci appare ad un tempo come una difesa rispetto alla vita reale. La sua ribellione si leva contro la sessualità e l’erotismo che sembrano appartenere esclusivamente al mondo degli uomini, mentre nell’universo femminile diventano tosto scandalo e letteratura erotica se non addirittura pornografia. Mentre l’infanzia trascorre libera ma in un mondo parallelo, la vita quotidiana di Joumana si svolge in una Beyrouth blindata dalla guerra ed è per questo che nella sua memoria intima l’infanzia non risveglia il sapore della dolcezza. Ambiguo anche il rapporto con la sua città, che guarda con rispetto e distanza, senza quel senso di appartenenza profondo ed emozionale che spesso è proprio di ognuno di noi. L’analisi è interessante perché osserva con ironia il mito della capitale libanese agli occhi del mondo arabo e soprattutto occidentale che ne conservano il fascino, di chi non l’ha subita come la nostra protagonista. Il futuro di Joumana diventa la scrittura, che condivido essere un grande laboratorio per formare se stessi e creare un dialogo intimo quanto filtrato con il mondo esterno, e soprattutto la poesia che è primariamente libertà, messa a nudo di se stessi, in particolare quella erotica. E ancora torna la critica al mondo arabo che, secondo la Haddad sputa su quello che desidera. Tornando sulla questione della femminilità, l’autrice si definisce una fanatica della sua affermazione che è coestensiva al bisogno di un uomo che non significa la dipendenza dal padre, dal fratello o dal marito. In questo ambito a suo giudizio la religione gioca un ruolo negativo che spinge all’odio tra le persone. Da parte mia mi auguro che il suo cognome, Haddad, sia portatore di una riconciliazione dato che nel mondo arabo è molto diffuso e ci sono haddad musulmani, ebrei, come anche cristiani. L’apertura è alla vita perché vivere, secondo la giornalista è essere fieri di quello che si è anche per le proprie sconfitte e così alla fine del libro torna la domanda sulle donne arabe che oggi appaiono funamboli sospese in alto senza una rete di protezione sotto il filo. C’è una nota nello stile della Haddad che merita attenzione, la sua semplicità che anche nell’estrema effervescenza critica non diventa aggressività e la sua umiltà nel presentarsi con uno scritto che descrive la propria esperienza senza pretendere di diventare un manuale di istruzioni per l’uso.

Gli ingredienti dell’amore


di Nicolas Barreau

La copertina, che – confesso – per me riveste un ruolo di una certa importanza, chiama, invita ad entrare a Parigi: una strada d’autunno, una ragazza in rosso, il mio colore preferito, un segnale per me che cercavo di ritrovare da tempo l’atmosfera di qualche anno fa nella Ville Lumière. Anche la Tour Eiffel che appare insolitamente nella sua parte più bassa ci accoglie con una familiarità non retorica. La quarta di copertina è ancora un invito caldo con il piccolo ristorante, che è uno dei luoghi protagonisti del libro, ben più di un simbolo, Le temps des cerises. Peccato scoprire che l’autore, che ha riprodotto fedelmente luoghi, negozi e locali, si sia ispirato ad un resto con tovaglie a quadri bianchi e rossi, ma abbia inventato poi il luogo di fantasia per ambientare alcune delle scene chiavi del libro.
Peccato anche per il titolo. "Le temps des cerises" sarebbe stato accattivante e fresco come il libro. Titolo vivace, ammiccante certamente, Gli ingredienti dell’amore, è vincente dal punto di vista commerciale ma non rende merito alla penna di Nicolas Barreau. A volte gli editori preferiscono correre dietro al gusto del pubblico piuttosto che guidarlo. Il libro è intrigante, adatto anche ad una trasposizione cinematografica dal gusto tipicamente francese, per un’uscita prenatalizia ad esempio. La scrittura è piana e scorrevole con una vena narrativa originale e fluida.
Non dispiace il lieto fine – per una volta tanto – con l’escamotage dell’autore che dichiara che i suoi finali preferiti sono aperti o tragici perché quelli felici vengono presto dimenticati dal pubblico. Chissà perché allore, ci si chiede, decide di racchiudere i due protagonisti in un abbraccio sotto la neve di una notte di festa, nella scena finale.
Mi ha colpita l’idea del libro che è una rete di conoscenze e di Segni che rimandano ad un’empatia tra persone sconosciute, come a me capita spesso a cominciare proprio da questo volumen. La protagonista dichiara che non ci sono coincidenze solo Segni e nulla sucede per caso a chi sa decifrare e coglierne il significato. Se pensó a me, per non svelare troppo della storia, in un momento di malinconia, pensando a Parigi sono stata attratta proprio da questa copertina e il viaggio mi ha portato nei luoghi che amo di più della Capitale: Saint Germain, Saint Louis et il Marais.
Se la storia ha qualcosa di incredibile per il suo rocambolesco romanticismo, mostra anche degli aspetti del tutto comuni, come nella vita di tutti i giorni e dalla quale l’autore sembra trarre più di un’ispirazione saltuaria.
Avrei una domanda che forse non troverà mai risposta ma confido nelle occasioni della vita, come Aurélie: perché in copertina c’è una ragazzina, molto più giovane delle protagonista, con un completino rosso qualsiasi e degli improbabili infradito? Chi mail i indosserebbe a Parigi in autunno? Una strana dimenticanza quella del cappotto rosso che la storia ci ha messo a disposizione. Sarà forse perché io adoro i cappotti rossi…

Gli ingredienti dell’amore
di Nicolas Barreau
Feltrinelli Editore
15,00 euro

Divorzio all'islamica a Viale Marconi


di Amara Lakhous

Un libro gustoso che restituisce alla leggerezza il suo vero valore: con una vena ironica, un po’ da commedia, mette il dito nella piaga di vizi e difetti del popolo della Capitale, senza esclusione di colpi, che assesta ora agli italiani, ora agli immigrati. La vicenda sembra semplice fino a che non si arriva al colpo di scena finale che induce il lettore a riavvolgere come una pellicola il libro ed appropriarsi della storia in un modo nuovo. I servizi segreti italiani ricevono un’informativa che parla di un nucleo di immigrati che vivono a Roma nella zona di Viale Marconi e che sono intenti a preparare un attentato. Christian Mazzari, un siciliano che conosce a perfezione l’arabo, viene infiltrato sotto il nome di Issa. Vivrà la città come un immigrato, con le difficoltà e le diffidenze che toccano ai ‘diversi’, ma con gli occhi di un italiano. Una singolare esperienza per rileggere la nostra società di fatto multietnica ma non integrata. L’autore, algerino, residente a Roma dal 1995, è invidiabile per come padroneggia la lingua italiana e la sua capacità di stare dentro tutte e due le culture, tanto che a volte viene il dubbio di quale sia la sua reale nazionalità. Un esempio mirabile e divertente di integrazione letteraria e di farciture di italiano e romanesco, con il dialetto siciliano, l’arabo e l’egiziano, modi di dire e proverbi che ci calano nella realtà più spicciola e autentica. Interessante è anche lo zoom sul ritratto matrimoniale della coppia Safia, Sofia per gli amici, e Said, detto Felice, un architetto riciclato pizzaiolo, perché gli immigrati sono costretti spesso a cambiare i loro nomi adattandoli al paese di adozione. Sofia è una donna che vive tutte le contraddizioni del rigore delle tradizioni a confronto con la modernità, coltivando un suo sogno, stretta nelle pieghe di un matrimonio difficile e sottomesso a un’interpretazione miope del Corano. Curiosa, ironica e drammaticamente autentica la lettura che Sofia ci propone dell’Islam dalla parte della donna, così come erroneamente viene data dalla società. Un libro perfetto per una sceneggiatura. Aspettiamo la versione cinematografica, dopo “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”.

Divorzio all’islamica a Viale Marconi
di Amara Lakhous
edizioni e/o

Viaggio di nozze a Teheran


di Azadeh Moaveni

Un romanzo autobiografico, anzi una biografia che ha il sapore e lo stile del romanzo. Azadeh ha un cuore iraniano ma è nata in California e la sua vita è una dialettica tra il mondo delle origini, più persiano che iraniano, come il suo nome e l’adesione all’Occidente più avanzato. Un’ambivalenza che ha la ricchezza delle contraddizioni ma anche la lacerazione della dialettica tra mondi molto diversi, quando l’autenticità dei due poli impedisce di sacrificarne uno. Così è in fondo la sua famiglia, a cominciare da sua madre che ha chiesto il divorzio, che è indipendente ma per certi aspetti profondamente legata al paese di origine così come lo ricorda e al contrario il padre che non vuole più tornare in Iran perché spaventato. Questa duplicità la ritrova anche nell’amore, Ashar, persiano che ha vissuto in Germania. La protagonista, giornalista impegnata, sceglie di occuparsi di Medioriente ma vivendo nella parte più internazionale, in Libano, dove lei stessa racconta che al di fuori degli impegni professionali passava i pomeriggi tra aperitivi e lezioni di pilates. Alla vigilia delle elezioni che portarono al potere Ahmadinejad si reca in Iran e da lì inizia una nuova vita. Incontrerà l’uomo che sposerà e dal quale avrà un figlio, che condivide con lei amore, passione e impegno civile. Gli episodi diventano escamotage per raccontare le contraddizioni e le difficoltà della storia attuale del paese, la negazione della libertà, l’invadenza dello stato che tracima nel privato: nel modo di vestirsi, nella ricerca di un ginecologo, nell’attenzione a tener nascosta una gravidanza perché non si è sposati, nell’impossibilità di informarsi sul tumore al seno che colpisce la madre di Azadeh perché una serie di parole che ad esempio interessano le parte del corpo sono censurate in Internet. Emerge così la tensione che porta la protagonista a non poter rinunciare al proprio lavoro ma a combattere con l’impossibilità a rassegnarsi, a farsi schiacciare dal regime, fino alla paura che paralizza ogni energia e la scelta di lasciare il paese per la Germania, quasi una fuga. Sarà così la volta della scoperta forse più dolorosa: non è vero che la libertà è tutto. L’amore e il calore della famiglia, di una comunità a volte sono molto consolatori e così ad un certo momento la protagonista tornerà con il proprio bambino per far visita alla famiglia del marito. Sembra scontato ma autentico pensare che il paradiso non sia di questa terra. La chiusura è delicata e struggente: la vita non può essere per un’occidentale un ripiegamento nella cultura del passato ma può attingere nutrimento dall’inesauribile ricchezza del sapere, così come Azadeh rilegge le fiabe persiane e pensa con tristezza al fatto che una civiltà grandiosa come la Persia sia stata sepolta ma nello stesso tempo con fiducia immagina che prima o poi un popolo che è stato capace di far emozionare dopo secoli e secoli generazioni rialzerà la testa. Un testo ricco, pieno di spunti e anche di facile lettura, che riassume decenni di storia attuale, forse solo un po’ troppo pieno di dettagli e di storie parallele.

Viaggio di Nozze a Teheran
Azadeh Moaveni
Newton Compton Editori
6,90 euro

Storie d’amore inventato


di Loredana De Vitis

Libro chiama libro. Ho incontrato l’autrice – che mi ha fatto dono di questo libro – perché si è resa disponibile a presentare il mio libro a Galatina. Uno scambio di due storie di donne attraversi u propri scritti come due mamme che si incontrano grazie ai propri figli nella stessa scuola o al parco giochi.. Per quel poco che conosco Loredana, Giornalista e scrittrice pugliese, laureata come me in filosofia, “Storie d’amore inventato”, racconta molto di lei a cominciare dal titolo, ironico, vitale e forse anche autoironico. L’autrice è giovane ma ha smesso di prendersi sul serio da molto tempo. E’ un libro autoprodotto – viva l’umiltà! – minimalista nell’abito con una copertina tenera e spiritosa insieme. Sono pagine di istantanee di storie, inventate – così almeno dichiara l’autrice – che sembra averne dimestichezza da poterle sottoscrivere a mio parere. Sono amori di oggi, di tutti i giorni, così vivi e familiari che appaiono tridimensionali e ti chiedi se il vicino di casa incontrato sulle scale la mattina sia uscito da quelle pagine e Loredana lo abbia forse incontrato prima di raccontarlo. D’altronde la vita – in amore soprattutto – ha più fantasia della nostra immaginazione. Colpisce il modo di scrivere così diretto, quasi brusco, con una vena che potrei definire maschile, anche se c’è tutta la sensibilità femminile, quasi sempre ferita che però ha un riscatto nella propria sincerità e franchezza, in grado sì di usare il linguaggio e le armi degli uomini ma lontana dalla loro indifferenza e mediocrità. Mi viene in mente quello che ho sentito dire che gli uomini vivono ma le donne sentono, che gli uomini hanno bisogno di provare ma non sanno riconoscere. Per associazione penso gli uomini fanno la guerra, consumano la vita; le donne sono la guerra e la vita. Piccoli quadri incisivi perché evocativi dal punto di vista dell’immagine anche grazie all’uso ‘spregiudicato’ della punteggiatura che rende la scrittura non ornamento ma puntello perché il contenuto possa animarsi. Spunti di una prossima sceneggiatura?

Storie d’amore inventato
di Loredana De Vitis
Libro pubblicato dall’autore
8,00 euro

Immagini e parole di Lulù



Niccolò Fabi, Shirin Amini

Un libro che è anche un album, un racconto attraverso immagini sul filo delle emozioni, nel quale immergersi. Ho incontrato Shirin Amini, autrice con il cantautore Niccolò Fabi e l’ho sfogliato con lei, ripercorrendone la nascita. Quell’alba è venuta dopo una notte scura, lunga e forse troppo breve ad un tempo, dolorosa e pungente, dalla quale qualcuno poteva pensare non sarebbe più sorto il sole. E invece no quella luna rossa ne ha prodotti tanti di piccoli soli che cresceranno. E’ un libro da vivere, nel quale perdersi che ci chiede di condividere la sofferenza per poter gioire davvero inseguendo un aquilone che è l’immagine che io mi sono fatta della piccola Olivia, detta Lulù. Ho incontrato Shirin Amini, mamma autrice e il titolo che si potrebbe dare al libro, quello raccontato tra di noi, suona più o meno così “Per non perdere la nostalgia dell’infanzia”. E’ stato presentato al Salone del Libro di Torino e poi ha fatto una tappa a Lecce alla Libreria Liberrima quindi comincia il suo viaggio tra i lettori.

Com’è nato questo libro? E’ nato per fissare un momento irripetibile, quello del concerto nella data del compleanno di Lulù, non con l’idea di ripetere ma di condividere. L’immagine è quella del cerchio, dell’abbraccio collettivo che ho sentito stringersi intorno a me e a Niccolò, con la volontà non di celebrare il dolore che è intimo e solo nostro perché Olivia è la nostra bambina. Una parte però, quella dell’empatia profonda, abbiamo deciso di condividerla.

Dall’ispirazione all’intenzione: a chi è dedicato il libro oltre ovviamente che a Lulù? Alla realizzazione di fondi per il nostro ospedale in Angola, a Chiulo, nell’estremo sud del paese quasi al confine con la Namibia. Oggi vi lavorano 3 medici del Cuam e ci sono 400 posti letti. I nostri sforzi si sono concentrati sul reparto pediatrico che era il più disastrato in un paese dove un bambino su 5 non arriva ai 5 anni di età.

Qual è l’origine di questa scelta? Al momento del concerto ci siamo chiesti a chi devolvere i fondi ma dato che Niccolò era già legato al Cuam, è diventata la nostra strada. L’idea in ogni caso era di rivolgerci all’infanzia per una vicinanza empatica con la nostra esperienza, un dolore che ha colpito una bambina. Così dall’idea siamo passati al progetto fino alla realizzazione della Fondazione Parole di Lulù una onlus che opera nella sanità rivolta ai più piccoli.

Cosa ‘racconta’ il libro? Una storia fotografica di una giornata realizzata principalmente da Mirta Lispi, Simone Cecchetti e Stefano Caporilli insieme con me arricchita dalle persone che ho sentito più vicine e con le quali sono più in confidenza con un messaggio. Per delimitare le emozioni ho chiesto un sms o una mail con un pensiero legato alla giornata del concerto, dalla preparazione, all’attesa, alla serata.

C’è un filo conduttore? L’unico criterio è quello dell’amicizia e anche gli artisti che hanno partecipato al concerto sono tutti amici almeno per Niccolò e il risultato è stato molto forte perché la parola pur lieve come un pensiero, un battito di ciglia e un sussurro, non è digeribile e arriva dritta.

E’ strano perché di solito si esalta sempre la forza delle immagini mentre la parola ha una sua mediazione. Niccolò come ha contribuito al libro?
Ha scritto la prefazione mentre io la postfazione. L’introduzione è il suo punto di vista della giornata concerto dalla parte del papà della festeggiata.

Nel libro si incontra Lulù direttamente e come? La scelta di mettere una foto della piccola è stata una decisione molto sofferta perché avevamo un certo pudore però capivamo che c’era qualcosa di strano in una pubblicazione nel nome di qualcuno che non si vedeva. Così abbiamo inserito una foto nell’ultima pagina sotto l’ala della copertina, con Lulù appena sveglia illuminata con la luce del mattino.

Lo chiameresti un libro di ricordi o in memoria di una persona cara? Mi sembra che ci sia una certa reticenza in te nel definirlo… In effetti è lontano da me e da Niccolò l’idea di celebrare una persona, di pensarla al passato. Direi piuttosto che è la testimonianza di una giornata speciale per vivere e rivivere l’emozione di quelle ore, un viaggio anche per chi non ci conosceva e non ha potuto esserci.

Cosa ricordi in particolare di quel giorno? La cosa più bella l’umanità che è come io vorrei che fosse, tutti uguali insieme stetti in una grande abbraccio collettivo. Così anche nel libro abbiamo cercato di restituire la fisicità tipica dell’infanzia. E’ un oggetto da toccare, che va piano ma entra dentro a poco a poco, con una certa timidezza e ritrosia. In questo sento che mi assomiglia.

Quanta musica c’è nel libro? Direi che c’è solo musica che lega le pagine del libro e le ore di quel giorno in un abbraccio continuo e spontaneo che si rinnovava.

Non abbiamo parlato del titolo che ha invece una lunga storia. Lulù era il soprannome della bambina che amava molto la canzona di Mina Parole, parole, parole. Dopo quello che è successo ci è capitato per caso di accendere la radio in macchina e di sentire quella canzone. Poi rientrando a casa abbiamo trovato una lettera della cantante che non conoscevamo e che si è detta molto colpita da quello che ci era accaduto e ci manifestava il suo calore. Le abbiamo risposto raccontando la predilezione di Lulù per quella canzone ed è nata una seconda incisione a due voci con Niccolò (anche se non si sono incontrati fisicamente) ed il resto è facilmente intuibile.

Al di là dei sentimenti più intimi e riservati, comunque vada la vita si resta genitori per sempre e nessuna lingua parla al passato dei figli, ne nomina l’assenza. E’ una parola tabou perché in effetti non c’è una corrispondenza nella realtà. L’essere genitore non è a tempo. Cosa resta, cosa manca, cosa accade di quello che si può raccontare e che il vostro impegno per l’infanzia testimonia? Quello che posso rivelare è che Lulù mi ha fatto sentire la nostalgia dell’infanzia e quella tenerezza che ho ritrovato non voglio perderla più. E’ tutto.

Immagini e parole di Lulù
di Niccolò Fabi, Shirin Amini
Kowalski Feltrinelli
16,00 euro
Una parte del ricavato è dedicato al progetto sanitario in Angola

Il silenzio del colore nero


di Serena Frediani

Un bel libro, a cominciare dal titolo suggestivo che per me è stata la calamita che mi ha attratto. La copertina conferma questa scelta, decisa, forte e raffinata ma anche essenziale, come il nero appunto, che contrasta con il sorriso aperto e dolcemente malizioso di Serena, la scrittrice, ma è un gioco che si ripropone nel libro tra innocenza e trasgressione, dolcezza e violenza e un tentativo di composizione. Forse è banale definire un libro “bello” ma pensando alla cultura classica e la bellezza è armonia e questo libro per me è questo, intreccio di componenti che stanno tutte in equilibrio, appunto dalla copertina, al titolo, allo stile, all’originalità della storia. Pensando al libro come a una rete di libri e soprattutto come rete di persone, non posso non pensare al nostro incontro grazie alle nostre piccole creature. Con “Prima che sia Buio”, il colore diventa metafora di uno stato, tanto che si sarebbe dovuto intitolare Rosso quasi bianco e il nero è nell’allusione del buio preceduto dal rosso dell’incandescenza del tramonto e nell’essere cruciale di un momento che è spartiacque. Anche le due copertine risuonano con una donna in bianco e rosso su sfondo nero.
Una storia di tutti i giorni che poi svela qualcosa di incredibile, forse un po’ torbido, senza però nessun compiacimento ed è questa l’originalità: sta nel modo di guardare la vita, anzi di penetrarla e di accorgersi che una persona qualunque, forse un po’ sciatta, che sceglie di fare la modella di un pittore in crisi, affetto da “inappetenza creativa”, apparentemente solo perché ha bisogno di lavoro, di un lavoro qualunque, ci apre un mondo infinito e riesce anche a scoprirci come solo l’intimità può fare.
E’ un libro che non delude mai, in crescendo, come raramente sono i romanzi di cui spesso trascuro la fine. Gli spunti tanti ma anche tutti riconducibili a quello che io chiamo il viaggio che non ha termine, l’unico per cui valga la pena vivere: la conoscenza dell’altro. E’ questa, sembra, l’unica strada che può portare alla felicità. Il protagonista si chiede più volte che cosa sia e si risponde ad un certo punto riconoscendo quel momento nel quale non si vorrebbe nulla di più e c’è un misto di pace, di armonia e eccitazione. E’ che a volte la si scopre solo nel ricordo.
Un ragazzo – che dovrebbe essere un uomo vista l’età – borghese, in lotta e ribellione con un padre affermato architetto che ama omologando gli altri a sé, sceglie la via dell’arte dove l’evasione diventa deriva. Il rapporto forte e profondo con una madre debole che porta nel giovane pittore il rifiuto ad amare per timore di essere posseduto e annullato dall’altro e così la fuga dalle responsabilità. Poi l’incontro, occasionale e a suo modo carnale anche se per una lunga fase platonicamente con una giovane donna che nel suo non essere bella, nel suo essere dolente porta alla luce le proprie ferite e nell’umiltà di chiedere aiuto provoca nell’altro la possibilità di mettersi a sua volta a nudo e in gioco. Resta la sfida dopo aver conosciuto il dolore, di farsene carico, di prendere le responsabilità del bisogno dell’altro e le redini della propria vita per provare a costruire una felicità. E’ di grande sottigliezza l’esame del percorso e della rivoluzione interiore che interessa il protagonista per non pensare che la scrittrice abbia lavorato a lungo su sé stessa, arrivando a conoscere bene i meccanismi della rabbia e dell’orgoglio tra padre e figlio; di complicità dannosa tra madre e figlio; di negazione per paura tra uomo e donna; di arte come fuga da sé prima che di laboratorio del sé.
Considero questa storia a lieto fine anche se ha un epilogo drammatico perché nella mia ottica chi comprende con il cuore oltre che con la mente e ha occasione di dividere l’amore e di riconoscerlo, ha trovato la strada e individuato la meta, anche se magari la manca. Non sempre tutto è perduto ed è un testo che dà speranza al di là del fatto che la vita se ne vada da un’altra parte, perché fino all’ultimo si può sempre farcela. Il padre e il figlio si ritrovano e a quel punto il dolore e lo strappo di anni si risolve come con la nascita si dissolve e si dimentica il dolore del parto, anzi si scopre che la sofferenza ci ha fatti crescere anche per gli errori.
L’autrice è una fine conoscitrice della psicologia che sgorga con naturalezza, senza pedanteria dalle sue pagine: Serena si immerge nella vita in tutte le sue forme e ha una vera curiosità e pietà per l’essere umano come quando fa dire al protagonista: “non era colpa di mio padre se per lui amare voleva dire livellare, rendere gli oggetti del suo amore come lui li desiderava…”. Riconoscendo le debolezze altrui si impara a perdonarsi e ad accogliere l’altro se animato da sincerità, come nell’incontro finale.
Assolutamente accurato l’accompagnamento alla confessione della coprotagonista, Flavia, che si mette a nudo in senso stretto svelando i segni del proprio dolore, quasi umiliandosi nel senso nobile, dando prova di umiltà, gridando a suo modo il bisogno di aiuto che spesso l’orgoglio di nascondere la propria fragilità non riesce ad avere. E’ il colore nero che in sé ha tutti i colori solo che li ha assorbiti senza riuscire a restituirli, “non sa parlare”. E sono tanti i particolari, come la delicatezza, la speranza e il sostegno per ricostruirsi che possono dare dei bambini.

Il silenzio del colore nero
Serena Frediani
Avagliano
15,00 euro

Agapornis, Suite Hitchcock


di Pia Arletti e Franco Ferrini

Romanzo improprio, quasi una sceneggiatura dove la realtà declina improvvisamente nella finzione con un deragliamento ironico senza facili colpi di scena, fatto di sottigliezze e di uno scivolamento impalpabile ma che ad un certo punto sorprende con l’in-credibile…come nei migliori noir e parlo più di letteratura che di filmografia.
L’esempio non è casuale dato che il protagonista è un regista del genere, come Alfred Hitchcock e la sua psicanalista, l’ebrea Mary Romm, realmente esistita, conosciuta e non amata da Alfred – con la quale collaborò forzatamente in occasione della preparazione del film “Io ti salverò”, anche se dalle testimonianze non risulta che Hitchcock sia mai stato in analisi. Certo è che il personaggio che emerge – pauroso, ossessionato dalla puntualità, complessato della sua pinguetudine nei confronti delle donne – che scorre come un fiume in piena e incolla il lettore alle pagine con la suspence tipica del cinema o teatro, con un andamento quasi esclusivamente dialogato, è tipico soggetto da terapia.
Interessante in questa scrittura “tutta esposta”, senza praticamente riflessioni fuori campo, la presa diretta aliena da cedimenti didascalici da parte degli autori che sembrano attori più che registi manovratori, in un intreccio di realtà e finzione difficile da sciogliere e consegnare ad un’interpretazione univoca. Un andamento che non è pura fiction né ammiccamento nei confronti del lettore spesso costretto a seguire la vicenda (come la vita) per quello che è, magari smarrendosi nelle “false piste” come negli stessi film di Hitchcock. Per chi ama il cinema e la critica cinematografica è un testo curioso senza pedanteria ma neppure la noia che in me ad esempio provoca il vezzo della finzione spacciata per vero, quella fatica di apprendere note sull’autore che scrive piuttosto che sul soggetto raccontato.
L’abilità è di costruire e giocare sul doppio, inteso come reale e immaginario, già nel laboratorio di scrittura: un’analista donna e uno sceneggiatore uomo che si confrontano in un alterco parallelo alla coppia narrata che a tratti emerge sovrapponendosi alla dialettica delle sedute di terapia. Il doppio credo sia una delle possibili chiavi di lettura di “Agapornis”: uomo-donna non tanto come dialettica degli opposti ma una doppia modalità di leggere la complessità dell’io; così come paziente e terapista, forse semplice metafora del dialogo tra io consapevole e inconscio; e ancora il vissuto e il sogno che si sdoppia nella confessione di Hitchcock che è a sua volta un gioco (?) - che lascio scoprire al lettore – fino alla soppressione del proprio doppio, il gemello e quindi il ricongiungimento trasfigurato nel matrimonio che è per Alfred simbiosi con Alma, nata nel suo stesso giorno (come una gemella appunto).
E per chiudere il titolo, con una sua suggestione enigmatica, colto ma con una punta di ironia e di gioco, nell’allusione agli uccelli di piacere che sono inseparabili come Hitchcock e la moglie, ma sono anche un regalo insolito e scomodo alla psicanalista come a rivelare che il paziente conosce meglio del terapista la soluzione del proprio problema, la difficoltà di relazione del regista ma anche il suo impasse creativo.
Così si aprono altre porte quali la critica alla psicanalisi – quella più autentica è il cammino che ognuno può fare da solo – che è strumentale come gli attori al regista. In altri momenti la terapia appare come una grande messa in scena dove nel recitare il proprio ruolo si sblocca la vita come la miglior tradizione del teatro terapia a partire dalla tragedia greca.

Agapornis,Suite Hitchcock
di Pia Arletti e Franco Ferrini
Collana Velvet
NO REPLY
12,00 euro

Dieci lune


Uomini e spettri

AAVV
BAE EDIZIONI
Prefazione di Armando Rotondi, Direttore editoriale di Bel-Ami Edizioni
Introduzione di Alex Visani
Illustrazioni di Francesco Perchiazzi, Artista napoletano


“Dieci lune” è la raccolta di dieci racconti legati al mondo che in senso ampio definiamo horror. Fin dal titolo si annuncia l’ambiguità che questo genere racchiude, proprio come la luna, a mio parere, perché è l’immagine per eccellenza del femminile, romantico e puro, ispirazione di tanti poeti; ma è anche l’allegoria dell’inconscio oscuro, Lilith, la luna nera. Non sono due realtà ma due in una, due facce della stessa medaglia, contigue e ambigue proprio come uomini e spettri.
Lo spettro è il fantasma che, come ci racconta l’origine etimologica, è un’apparizione della fantasia, il morto che torna in una costante discontinuità di opposti che sono strettamente intrecciati e che si nutrono uno dell’altro: la vita e la morte.
Lo spettro è anche l’altro da sé che è allo stesso tempo la parte più profonda dell’io, in certo senso la più autentica e misconosciuta (nel doppio senso di non riconosciuta e rifiutata) che per questo spesso appare aliena. Ed è questo l’aspetto che colpisce di più nella lettura dei racconti editi da Bel-Ami Edizioni: non tanto lo spavento, il sangue ma quell’orrore sottile ed invisibile che contamina il quotidiano e che non è percepibile finché non esplode e ci colpisce.
E ancora, l’orrore è spesso in noi. In tal senso la lettura dell’horror è per me difficile perché è facile smarrirsi, entrare in confusione perdendo la definizione tra reale e surreale.
Da notare che gli autori sono tutti giovani, sotto in 40 anni, ed appaiono dalle note biografiche introduttive, semplici, con mestieri per lo più lontani dal mondo strettamente culturale e dello spettacolo – ben 3 sono ingegneri – e una sola firma femminile della quale non ci sono dati dettagli autobiografici.
Seguendo l’idea dell’introduzione rileggerò in poche righe i racconti in un ordine differente, non in ordine di apparizione, cominciando proprio dall’unica autrice donna, Floriana Niobe Puccini che ci racconta il fantasma interiore di un’illusione allucinante che consuma nel fisico e nell’anima una giovane donna. Non c’è orrore ma lo spettro delicato e terribile che si annida nella malattia dell’anima che si auto divora lasciando impotente anche la madre della protagonista, “Presto, molto presto”.

Francesco Rago ne’ “I cuori di Flora” propone ancora un orrore al femminile, quello della vendetta che è sì orrida ma si cela purtroppo nella quotidianità diffusa di un eros malato, di un dolore che non è riuscito a farsi proposta esprimendo la creatività in rabbia.
Ho ritrovato Marco Caudullo – del quale ho recensito in questo spazio “Valneve” – con le sue atmosfere malinconiche in “Pioggia”, quelle di un ragazzo abituato al sole del sud che si perde, irrimediabilmente attratto, dalla spettralità del nord. Anche in questo racconto torna la natura protagonista che è anche una metafora dell’interiorità, la pioggia e uno stile volutamente confuso dove non si coglie il confine tra sonno e veglia, eppure ricco di particolari che rendono la vicenda quasi domestica, come i gusti letterari dei protagonisti. I personaggi vivono storie d’amore qualunque, quelle che ci circondano, banali e talvolta tragicamente e torbidamente “eccezionali”.
E’ l’avidità di una donna, ancora una volta protagonista dell’orrore, in “Una madre e una figlia” di Antonino Alessandro. Un narrare delicato e classico che si rovescia in un giallo. In effetti sono molte le donne protagoniste cruente dei racconti maschili che sembrano richiamarsi ad una certa tradizione popolare del femminino diabolico. E’ l’allucinazione psicoanalitica nel vortice di racconto in cui si fatica a trovare il filo, la vera protagonista di “Legami” di Simone Corà. La dissoluzione dell’io nella frantumazione schizzofrenica di tanti personaggi che sono uno nell’altro, e l’uno anche l’altro. “Il buio è dentro di me” di Daniele Puccini è una dichiarazione di intenti che concentra l’obiettivo sul terrore e orrore che sono in noi. “E’ come se il buio mi penetrasse dentro. E li vedo. La loro vita è la nostra morte. Vivono di sangue e di dolore e si nutrono della paura e della sofferenze, inalano gli effluvi dell’ira e della vendetta, aggirandosi tra noi invisibili e con la morte dell’anima. Io solo so. Io solo li vedo. I figli delle tenebre”. Le parole del Diario di Remo Scienza protagonista di questo ‘episodio’ mi sembrano la chiave di interpretazione del libro: un dolore non curato e non risolto trasforma la sofferenza propria in distruzione dell’altro e ci ricordano molte fiabe nelle quale il brutto e cattivo spesso non è che sfortunato e ferito. E gli spettri sono protagonisti in “Quando ritornano” di Matteo Poropat che mi ha richiamato alla memoria lo splendido “Cecità” di Josè Saramago, una metafora sociale tra allucinazione e catastrofe che la solidarietà può curare. E’ sottile il filo che ci separa dall’al di là nell’ambiguità dei rapporti umani ne’ “La notte delle falene” di Nicola Roserba. Con “Lucifero in provetta” di Francesco Stefanacci al centro si pone il tema dei bambini inquietanti a dispetto dell’apparente tenerezza…e forse non a caso la protagonista è una bambina dall’intelligenza acuta. Si accenna anche al tema delicato del rischio di intervento dell’uomo sulla natura. Chiude la raccolta Andrea Viscusi con “La bella lavanderia” che propone, citando nel titolo una nota filastrocca, la commistione tra folclore e horror molo diffusa nella tradizione letteraria popolare, basti pensare alle fiabe dove la bellezza – leggi felicità – che sembra a portata di mano nasconde qualcosa più dell’amaro, il doppio fondo dello specchio delle illusioni.

Dieci lune
Uomini e spettri

BAE EDIZIONI
10 euro