mercoledì 13 febbraio 2013

"Miti ladini" di Nicola Dal Falco


raccontati da Marisa Cecchetti *

Ho scritto altre volte di Nicola Dal Falco e mi è tornato a mano ciò che ho detto a proposito della sua raccolta di racconti Il cavaliere verde, ed. I Libratti, 2009.
Anche se ora si tratta di miti ladini, non è fuori luogo tornare a questi racconti. Sono brevissimi, una o due paginette - c’è l’elemento acqua trasversale, espresso soprattutto dalla immobilità di un lago - c’è immobilità e stupore delle cose, ci sono figure eccentriche, che rimandano alla divinità e al mito. L’autore osserva la realtà ma attraverso il simbolo, quindi va oltre la realtà, ciò che cade sotto lo sguardo. Questo salto oltre le cose appare come una tensione costante, per cui il lettore è accompagnato da questa percezione del limen, della soglia, del confine indistinto tra reale e irreale, tra detto e non detto, tra oggi e domani.
Mi viene subito da riportare un incipit dei Miti ladini, a sottolineare una ulteriore presenza di momenti di passaggio, di soglia, di ombra:
“Questa è la storia di una caduta, la caduta di un regno. Cose che accadono quando mutano i fati e il tempo affretta la propria corsa circolare. E’ un momento confuso, in cui l’accavallarsi di luci e di ombre agita il fondo dello specchio”. Oppure: “Brillava come il cielo chiaro, come un mare a riva, come l’azzurro dei fiori e del costato. La rayeta era il sogno quotidiano dello sciamano, la porta che lo lasciava al di là. Un passaggio irto, lento, concentrico”. 
Il lago dei racconti è immobilità e morte, ma l’acqua contiene anche la vita. L’acqua stessa del lago, simbolicamente, è una soglia da superare.
Le corti che compaiono nei racconti conservano “spezie di mare” nei sassi tolti all’Adige, allo stesso modo le Dolomiti conservano fossili marini.
Allora avevo scritto: “la parola è rotonda e sensuale, altamente poetica, quasi priva anch’essa del peso del significante”.
In Miti Ladini, del 2012, c’è una continuità con i racconti, incredibilmente anche nelle tematiche; e ritorna il linguaggio “scarnificato” del suo stesso peso, caratteristica, questa, del registro narrativo di Dal Falco.  La parola è ancora rotonda ed altamente poetica. 
Ora capisco meglio le ragioni per cui Dal Falco ha dedicato anni di lavoro ininterrotto a questo testo, spinto dal fascino della ricerca di Ulrike Kindl, colei che ha dedicato 40 anni all’analisi delle tradizioni orali ladine e la massima esperta dell’opera di K. Felix Wolff, che ha scritto per primo le leggende del mitico popolo dei Fanes.
Dal Falco ha lavorato su materiale per lui perfetto, rispondente alla sua stessa ricerca interiore, al suo bisogno di trascendere la realtà attraverso il mito e il simbolo.
Questo bisogno fa parte dunque del suo dna, appartiene alla sua poetica. Probabilmente è lo stesso per cui ha viaggiato tanto ed ha scritto di viaggi, per andare oltre, ma non in senso di conoscenza oggettiva, ma più profonda, direi quasi lirica, come suggerisce questa frase di un racconto (Il destino di un villano): “Il cielo quaggiù, invece, dipinge le donne completamente diverse: le ha fatte nere come il sole, hanno la luna in bocca e dove passano non lasciano impronte”. 
Oppure, - e siamo ancora nei racconti - (Trittico): “Qui, a Pagnona, si credeva che certe donne potessero mutarsi in api, viaggiare su sentieri di luce, usando i raggi del sole come binari”
Ecco allora svelato il segreto della fascinazione che hanno esercitato su di lui le leggende di questo popolo mitico che ha come totem una marmotta,  con una organizzazione matriarcale, in alleanza col popolo stesso delle marmotte. E il fascino di tutte quelle figure e oggetti che appartengono solo all’infanzia del mondo, il mago Spina de Mul, la maga Tsicuta, il coraggioso e innamorato Ey de Net, le frecce magiche. E tanti altri, ché molti filoni si intrecciano a quello principale di Dolasila ed Ey de Net.
I miti ladini hanno dunque offerto a Dal Falco l’occasione forse mai sperata ma solo sognata, di aggirarsi, immergersi in un mondo a cui lui continuamente fa riferimento. Qui si aggira tra regni sotterranei e regni di luce, tra ombra e sole. E torna anche il lago, questa volta divenuto una superficie su cui seminare polvere per far nascere frecce magiche d’argento, che saranno la vita e la morte per Dolasila: “Da qualche parte in val di Fassa esisteva una volta un lago circondato da fitti canneti. Si diceva che sul fondo fosse stato gettato un mucchio d’argento…Il re vide che era tempo di recarsi in riva al lago, dove l’accolse una musica fine.
Il lago nascondeva le sponde sotto una siepe di canne d’argento che, muovendosi alla brezza del mattino, ritmavano un suono di sistri”
Le Dolomiti, realmente e visibilmente così figlie del mare, riportano dunque ancora una volta all’elemento acquoreo che lui ama.
Ma soprattutto rimandano, con i miti che conservano e nascondono, alla stessa simbologia dei miti mediterranei legati alla terra e al cielo, alla vita e alla morte. Questo a dimostrazione di una eterna domanda che nasce dall’uomo, stupito e spaventato dal mistero stesso della vita, dell’amore, della morte.
Lui si proietta totalmente nel mito, lo vive con forza, sente quasi sulla sua pelle le storie, le sofferenze, le passioni.
Si aggira con tale piacere in questo mondo a lui così congeniale, che procede lasciandosi trasportare dalla emozioni provenienti dal   materiale informativo a cui sta dando forma letteraria. Ne deriva un andamento ondulatorio, visibile nella pagina stessa, che lui sceglie di non allineare lasciando diversa la lunghezza delle righe, sia nel suo procede non sempre in modo cronologico - del resto cosa difficile da  realizzare, trattandosi di miti che non sono misurabili nel tempo - ma possibile, almeno quando si incomincia a trattare un filone. 
Questa presenza di mare, nonostante la mole delle Dolomiti, ritorna spesso: “A contare sono gli a capo dove, come nel ritmo delle maree, sale e decresce la saggezza degli uomini, in modo che alla fine, risulti proprio la conoscenza la vera posta in palio”.
Lo scrittore procede libero. Chi legge, se vuole provare lo stesso piacere che ha provato senza dubbio l’autore nel realizzare l’opera, deve abbandonarsi al moto ondulatorio della narrazione, accettando il prevalere del registro lirico, che si affianca e si intreccia a quello narrativo e descrittivo,  e in qualche modo è sempre presente.
E’ interessante notare come l’autore intervenga nel testo, quasi a commento dei fatti della vita, un filone riflessivo-filosofico disperso qua e là ma costante: “Tre domande danno sale al mondo: nascita, vita e morte. Perché si nasce, perché si vive e perché, infine, si muore”. 
Oppure: “Spesso accade che si cerchi fuori un luogo, un paesaggio prossimo a quello del cuore”. E ancora: “In fondo, anche l’azione distruttiva della guerra si specchia nella lussuria, nell’attaccamento, nell’abbandono a tutte le malizie…La vera dedizione accoglie le sconfitte, l’impossibilità, l’incomprensione, anche il disamore, le fonde in una tenerezza che non giustifica, in una pace senza desideri di potenza”.
E’ interessante notare un fatto senza dubbio non casuale, che a fianco di questo registro leggero che caratterizza Dal Falco, anche quando parla di battaglie, come per contrapposizione, come per un ritorno a un mondo più reale, ci siano le glosse  concrete di Ulrike Kindl.
E credo che non sia per caso che il libro comunichi un senso di freddo, in contrapposizione alla passione e alla leggerezza della narrazione. Volume pesante come la pietra, e ghiaccio, di un colore niveo che si affianca alle immagini in bianco e nero, estendendo il contrasto luce - ombra anche al contenitore.
Sulla liricità della parola di Dal Falco, ecco, infine, alcuni versi della Rayeta ritrovata, la pietra magica che Dolasila portò in testa: eccomi sciamano/ora che il cielo imbruna/e la terra si confonde/io appaio…tu sei la bianca signora/la tre volte sempre/che manda il canto/ che sospinge il canto/ e separa i giorni come nuvole”.
Nato a Roma nel 1957, Nicola dal Falco vive da anni in Lucchesia. Ha viaggiato e scritto di viaggi tra est Europa e Africa. Ha pubblicato poesie, racconti, saggi. Ha ideato l’evento culturale Piombi e Rami, che si è tenuto per vari anni presso la libreria Baroni, nel centro di Lucca. Erano incontri con Editori d’arte, che presentavano piccoli libri stampati a mano, di grande valore artistico, ognuno arricchito con qualche acquaforte o incisione. Ama, senza dubbio, l’arte e la bellezza, e le sa scoprire. Ho scritto altre volte di lui. Mi è tornato a mano ciò che ho detto a proposito della sua raccolta di racconti Il cavaliere verde, ed. I libratti, 2009.

Miti ladini delle Dolomiti
Ey de Net e Dolasíla
di Nicola Dal Falco
con il saggio Raccontare le origini 
e le glosse di Ulrike Kindl
foto di Markus Delago
Palombi Editori  - Roma, 2012
pagine 264
15 euro

*Marisa Cecchetti è nata a San Giuliano Terme (Pisa) e vive a Lucca. Insegnante di Lettere, collabora con testate giornalistiche e siti web come critico letterario. Tra le sue pubblicazioni in prosa, "E cominciò a sognare a colori" (Del Cerro 1998); "La bici al cancello" (Mauro Baroni 2002); "La silloge Schizzi d'eterno" (Edizioni d'Arte Il ragazzo innocuo 2006); "Tibidabo" (Edizioni d'Arte Il ragazzo innocuo 2007). Le raccolte di poesie "Il vuoto e le forme" (Del Cerro 2000); "È filo di seta" (Del Cerro 2003); "Straniero tu che non mi accogli l'anima" (Del Cerro 2004); "Cantieri" (Del Cerro 2007); "Nonostante la rosa" (LietoColle 2009) 

Segnalato su "Rivista d'arte: parliamone"  di Bartolomeo di Monaco

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