martedì 9 aprile 2013

Editoriaraba in polemica su una concezione folkloristica della letteratura 'altra'


L'autrice dell'articolo è in polemica con lo scrittore Massimiliano Parente, per un suo intervento sabato scorso sul "Giornale". In 60 righe o giù di lì, l’autore lamenta la scomparsa dalle librerie italiane dei grandi autori della cultura classica occidentale, il cui posto sarebbe stato usurpato da una folta schiera di autori stranieri, di origini araba e africana per lo più, dai nomi impronunciabili e che fanno dire al nostro che in realtà questa letteratura “etnica” servirebbe a nutrire palati borghesi e radical chic, in cerca di altrui dolori e tragedie, così da sentirsi confortati nel caldo e nella mollezza benestanti delle proprie abitazioni. Perché a vendere di più oggi sarebbero i romanzi sulle tragedie africane, palestinesi, arabe e dei migranti, che in passato trovavano posto nei grandi reportage giornalistici, mentre oggi “bisogna scriverci dei romanzi”.
L'autrice scrive che "per quanto possa essere condivisibile, ad un minimo livello, la critica che il nostro muove ad un certo filone di marketing editoriale italiano che strizza l’occhio al lettore medio, adescandolo con proposte che solleticano la sua pruderie, in realtà ci sono diverse note stonate in questo pezzo, che sembra scritto in tutta fretta (tanto per cominciare, tutti i titoli citati sono nuove uscite) e in cui il parlare della letteratura sembra solo un pretesto per sparare a zero su altro e difendere l’orgoglio nazionale e i propri confini sicuri.
L’immagine che esce da questo articolo è quella di una letteratura straniera un po’ folkloristica, i cui scrittori portano nomi come Jabbour Douaihy, Alawiya Sobh, Yasmina Khadra o titoli come Timira. Romanzo meticcio, che sono 'impronunciabili' e che sono stati tradotti o pubblicati in Italia solo perché l’esotico tira, va di moda. 
I nomi citati sono messi alla rinfusa come se fossimo all’interno di un enorme calderone in cui mischiare gli stessi ingredienti. Si passa da Timira, letteratura italiana e migrante; a Shani Boianjiu, autrice israeliana, che sta insieme a Sobh e Douaihy, scrittori libanesi, e Khadra, autore algerino francofono che vive in Francia. Nomi infilati uno dopo l’altro come fossero intercambiabili, perché quando si parla di qualcosa che non si conosce, ma che si giudica, lo strumento della generalizzazione è quello più facile e pronto da usare.
Mi piacerebbe sapere se Parente sa chi sono questi autori, se li ha mai letti: se sa che l’ultima volta che Khadra è venuto in Italia, ad esempio, ha riempito un auditorium romano; se sa che Jabbour Douaihy è stato di recente ospite della Scuola Holden di Torino, in cui ha tenuto una lectio magistralis sulla letteratura e il mestiere dello scrittore. Chissà se sa che gli italiani leggono, da decenni ormai, la letteratura araba in traduzione, che conoscono e apprezzano Mahmoud Darwish, Elias Khoury, Abdellah Taia, Hoda Barakat, Ghassan Kanafani, Nagib Mahfouz, Ghada Samman.
Nel romanzo di Jabbour Douaihy, "San Giorgio guardava altrove" (Feltrinelli), la protagonista racconta la guerra civile in Libano e il dramma della sua doppia appartenenza religiosa, cristiana e musulmana.  
Douaihy dev'essere stato tradotto non perché abbia effettivamente qualcosa da dire, ma perché ha un nome così complicato che chi lo riesce a decifrare e pronunciare correttamente deve sentirsi molto intelligente...
Il sentore folklorista viene rafforzato poi ancora di più dall’immagine messa in bella mostra nell’articolo, e che raffigura una danza africana.
È evidente che per Parente solo la letteratura occidentale può parlare delle miserie della condizione umana. Non quella extra-occidentale che racconta solo di guerre, bambini ammazzati e povere donne islamiche senza diritti. Come se, ad esempio, i libri che raccontano la guerra civile in Libano avessero una portata ristretta, nazionale, o riservata a lettori di un certo tipo e come se il racconto di quella tragedia libanese non potesse essere portatore di un messaggio universale. 

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