giovedì 12 dicembre 2013

Editoriaraba - L’anima nera e disillusa dell’Egitto in “Polvere di diamante” di Ahmed Mourad

Questa recensione è apparsa domenica su Osservatorio Iraq – Nord Africa e Medio Oriente.

Nelle notti della città che non dorme mai, Il Cairo, c’è chi invece di dormire cova sogni di vendetta, chi nasconde le proprie debolezze all’interno di camere buie, chi delinque protetto dal favore delle tenebre. Sono le notti di una città agitata, cullata solo dallo sciabordio delle acque del Nilo, in cui è ambientato il secondo romanzo di Ahmed Mourad, Polvere di diamante. Una città che, come l’Egitto, secondo Mourad perse l’innocenza nel 1954, quando il presidente Neguib venne deposto da Gamal Abd al-Nasser: il “peccato originale” da cui prendono avvio tanto la storia contemporanea dell’Egitto quanto la storia narrata in Polvere di diamante.

Come il precedente e fortunato Vertigo (Marsilio, 2012), anche Polvere di diamante è un thriller – giallo dall’animo pop ambientato al Cairo. Al contrario del primo però, in cui i buoni alla fine trionfavano, la trama di Polvere di diamante è molto più scura, decadente e sanguinosa ed è infarcita di lugubri becchini, corvi neri, cimiteri, poliziotti corrotti e politici avidi.

Il plot segue la vita di Taha Hussein al-Zahhar, giovane farmacista che proviene da una modesta famiglia di quella media borghesia strangolata dal regime di Mubarak. Taha vive in un umile appartamento nel quartiere di Doqqi insieme a suo padre Hussein, un ex insegnante di storia, la cui esistenza era stata stroncata a fine anni ’90 dall’ “affare Al-Rayan” che si era portato via tutti i suoi risparmi (e quelli di buona parte della media borghesia egiziana). 

Per il dolore, Hussein era rimasto paralizzato ed era stato abbandonato dalla moglie: costretto a vivere su una sedia a rotelle e a guardare il mondo dalla finestra della sua camera, Hussein sopravvive covando rancore e propositi di vendetta verso un Paese che lo ha deluso e contro coloro i quali, secondo lui, hanno trascinato l’Egitto in una sorta di inferno dantesco fatto di corrotti, pervertiti e ladri.

L’unica convinzione che lo fa andare avanti è la massima secondo la quale “a volte siamo costretti a commettere piccoli errori per correggere errori più grandi” e una piccola boccetta di vetro contenente una polvere bianca impalpabile, la misteriosa e micidiale “polvere di diamante” del titolo.

Taha sarà coinvolto, suo malgrado, nella spirale di assassinii e vendette in cui è immerso il padre, diventando il simbolo della perdita dell’innocenza dell’Egitto, i cui peccati possono essere espiati solo a danno di tutta la comunità, dove nessuno è salvo perchè mai del tutto innocente.

Polvere di diamante si legge a rilento fino a quando, verso la metà del libro, il lettore apprende, stupefatto e sconvolto, l’inversione di rotta che Mourad fa compiere a Taha. Da allora, il romanzo segue le incredibili vicende di Taha in un crescendo di colpi di scena fatto di morti, veleni e ricatti che conduce il lettore ad un finale degno di un vero giallista. Un finale che, tuttavia, lascia un po’ l’amaro in bocca.

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