giovedì 20 febbraio 2014

Editoriaraba - Luci e ombre di un inedito Kahlil Gibran

Questa recensione è apparsa domenica su Osservatorio Iraq – Medio Oriente e Nord Africa

Se c’è un intellettuale arabo che ha oltrepassato i confini del mondo arabo ed è conosciuto e apprezzato a livello internazionale è sicuramente Kahlil Gibran: poeta, filosofo, artista e nazionalista nato nel 1883 nel piccolo villaggio di Bisharri, poco distante da Tripoli, nella regione siro-libanese che allora era solo una delle province dell’Impero Ottomano. Nato Gibran Khalil Gibran, e poi passato alla storia come Kahlil (o Khalil) Gibran, fu l’indimenticato autore del libro Il Profeta che gli diede la fama internazionale che il suo intelletto, a dir la verità, meritava.

Ma si sa, la fama è ingannevole: è così tutta l’opera di Gibran fu inghiottita dalla notorietà che gli diedero le poche righe della sua opera principale, che lo consegnarono ai posteri come un autore-guru le cui citazioni da Il Profeta si trovano ovunque in Internet e, oggi più che mai, nelle pagine di Facebook in cui Gibran è accomunato ad altri scrittori-guru alla stregua di Paolo Coelho.

Peccato che la creatività e la maestria di Gibran non siano certo riducibili alle brevi frasi da social network: a restituire la statura che merita ci ha pensato di recente lo studioso gibranista Francesco Medici, il quale ha raccolto episodi della vita di Gibran poco conosciuti, estratti di lettere da lui scritte, racconti tramandati dalla sua cerchia di amici siro-americani, brani inediti di Gibran e li ha raccordati in questo volume appena uscito per l’Editrice La Scuola: Il profeta e il bambino.

Nei quattro capitoli che compongo il testo viene alla luce il profilo di un Gibran assolutamente inedito e tenero: il primo capitolo racconta alcuni episodi della fanciullezza del poeta fin dalla nascita in un Libano quieto e rurale: “È vero: di notte, in Libano, sembra quasi che le stelle siano appese nel cielo e che penzolino nel vuoto, giù dagli abissi d’azzurro”.

Nato all’interno di una famiglia cristiano-maronita molto agiata, proprietaria di terre, immobili e oggetti preziosi, un padre esattore delle imposte e una madre affascinante e intelligente, Gibran si rivela da subito un bambino curioso, inquieto e dotato di un’intelligenza pronta e sensibile che lo rende diverso dagli altri fratelli. Fin da piccolo è già alle prese con carta e penna, per scrivere poesie o disegnare.

“Ho visto il mare per la prima volta quando avevo otto anni. (…) Non c’era orizzonte e l’acqua era solcata da grandi velieri orientali a vele spiegate. Mentre attraversavamo le montagne, all’improvviso vidi quello che mi sembrò un cielo sconfinato in cui veleggiavano le navi”.

La prima adolescenza del poeta è segnata dalla rovina economica del padre e della famiglia: con la madre e i fratelli Gibran lascia Bisharri e si trasferisce a Boston dove frequenta le scuole e apprende subito l’inglese perfettamente. Frequenta il collegio in Libano e ritorna negli Stati Uniti dove assiste alla malattia e alla morte di metà della sua famiglia di origine, tra cui l’adorata madre, l’unica che riuscisse a intenderlo davvero. A inizio Novecento parte per Parigi dove frequenta l’Académie Julian sotto la guida del maestro Rodin e migliora le sue tecniche pittoriche.

Tornato negli Stati Uniti si trasferisce a New York dove comincia a collaborare con il gruppo di intellettuali siriani d’America di cui facevano parte anche Ameen Rihani e Mikhail Naimy: compone libri, dipinge quadri nel suo studio-ritrovo, scrive articoli e saggi. A causa del contenuto della sua opera Gli spiriti ribelli, in cui incoraggiava i giovani del suo Paese a ribellarsi contro il giogo dell’Impero Ottomano, il libro fu bruciato e il suo autore scomunicato da parte della Chiesa e condannato all’esilio (quando si insedio il governò dei Giovani Turchi l’esilio venne revocato). Nel 1923 pubblicò Il Profeta che ottenne un incredibile successo di pubblico.

Ma Gibran fu un animo inquieto: perennemente immerso nei suoi pensieri, fragile e profondamente critico verso sé stesso. In un brano particolarmente significativo, contenuto non a caso nella prefazione al volume, Mikhail Naimy racconta di quando con altri amici aveva portato Gibran a fare una gita fuori città per distrarlo (era il 1921 e la salute di Gibran non era già delle migliori), e Gibran, pensieroso come sempre, di ritorno da una passeggiata all’aperto esclamò all’amico: “Misha! Sono un falso allarme”.
Un falso allarme, o forse un bluff: chissà cosa passava per la testa di Gibran quel giorno per arrivare a definirsi in modo così spregiativo.

Di certo nessun grande personaggio della storia è rimasto immune ai deliri del cuore o della mente: la fama, e la storia, con i loro pesanti fardelli, non attraversano il cuore dell’uomo senza lasciare un segno indelebile del loro passaggio e Gibran non fu da meno.

Se questo libro ha un merito, tra gli altri, è quello di aver ridimensionato il divario che la notorietà negli anni aveva creato tra l’uomo-Gibran e la mitizzazione del suo personaggio. E di averci restituito l’immagine a tutto tondo di un poeta, intellettuale e artista, che prima di ogni altra cosa era un essere umano, con la propria storia e le proprie inquietudini.

(Chiara Comito)

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