lunedì 24 marzo 2014

Editoriaraba - Muhammad Aladdin: “La scrittura è un drago verde con i baffi viola”

Oggi su editoriaraba c’è un post speciale: perché per la prima volta presenta un autore sconosciuto in Italia di cui potete leggere la traduzione in italiano inedita di un suo racconto, tradotto dall’arabo da Barbara Benini.

L’autore del racconto è Muhammad Aladdin, classe 1979, nato al Cairo, scrittore e sceneggiatore freelance che ha all’attivo già cinque romanzi (l’ultimo pubblicato da poco dalla casa editrice Dar el-Ayn: video della presentazione al Cairoestratti in arabo dal romanzo) e tre raccolte di racconti.

Il suo primo romanzo, pubblicato nel 2006, dal titolo Il Vangelo di Adamo, gli ha guadagnato il riconoscimento di scrittori del calibro di Baha Taher, Sonallah Ibrahim e Mohammed Berrada, che ha annoverato Il Vangelo di Adamo tra le cinque opere che hanno rinnovato il romanzo arabo. “Nel 2011 Aladdin è stato definito dalla rivista Akhbar al-Adab come uno dei più importanti scrittori egiziani del nuovo millennio e secondo lo scrittore Pauls Toutonghi, su The millions.com, è uno dei “Six Egyptian writers you don’t know but you should“. Suoi racconti brevi sono stati tradotti e pubblicati in inglese e in russo.

Prima di leggere “La voce”, contenuta nella raccolta Giovane amante, Nuovo amante (in araboالصغير و الحالي), pubblicata dalla casa editrice indipendente Dar Merit nel 2012, il blog pubblica una breve intervista all'autore:

Iniziamo dal nome del tuo blog, che è: “La scrittura è un drago verde con i baffi viola”. Come mai gli hai dato questo nome? E cosa significa scrivere per te?
Sì è un nome divertente, vero? Quello è il mio blog personale, l’ho cominciato per motivi personali ma in gran parte è dedicato alla scrittura. Quanto al titolo, mi è venuto in mente per caso, mi è piaciuto e ho voluto chiamare il blog così. Immagino che rappresenti quel tipo di sensazione che dà scrivere, un qualcosa che non ha regole e che non si può descrivere completamente o cogliere nella sua totalità.

Scrivi ormai da 14 anni: come è cambiato il tuo modo di scrivere negli anni? La rivoluzione egiziana e gli eventi socio-politici degli ultimi 3 anni ti hanno in qualche modo influenzato?
Ho cominciato nel 2000 scrivendo pezzi satirici e poi c’è stata una prima svolta nel 2003 con “L’altra banca”. Però per me ogni cosa che scrivo è diversa: ha un suo modo di essere, un suo linguaggio, un suo livello. Tutti i miei romanzi e le mie storie sono diversi tra loro. È difficile quindi dire se la rivoluzione ha cambiato il mio modo di scrivere perché io stesso cambio ogni volta che scrivo qualcosa di nuovo.

La casa editrice Dar el-Ayn ha appena pubblicato il tuo ultimo libro. In un’intervista con Marcia Qualey sul suo blog hai detto che ami i personaggi di questo libro perché “Hanno qualcosa che te li fa ricordare anche dopo aver finito il libro”: ci spieghi che significa?
I personaggi di questo libro hanno qualcosa di diverso, danno l’idea di come la realtà possa essere davvero assurda. Un critico di recente ha detto che gli sembrano tutti schizofrenici ma per me chiamarli così sottintende che in questo mondo esiste la normalità, nel senso classico del termine, che invece secondo non esiste. Però i personaggi del libro fanno ridere, ti mostrano spesso dei lati diversi del Cairo ad esempio. In letteratura in generale i personaggi sono fondamentali e spero che i miei siano all’altezza.

Parliamo del tuo racconto “La voce”: chi o cosa è la voce? Esiste davvero nella mente del protagonista o è una metafora che ci vuole dire altro?
In letteratura teoricamente ci dovrebbero essere diversi livelli di significati, che non vanno confusi con i vari messaggi che il testo vuole convogliare. Il primo di questi livelli è il più importante: se tu leggi la storia di quest’uomo che sente una voce nella sua testa e ti piace, bè allora ti dico, io sono davvero, e senza ombra di dubbio, più che soddisfatto.

Chi sono i tuoi riferimenti letterari, gli scrittori e/o le correnti letterarie e perché?
Uhm, non so parlarti di “riferimenti” ma posso dirti chi sono quegli autori che amo leggere, e sono tantissimi, talmente tanti che ho paura di menzionarne solo alcuni e di dimenticarmi degli altri. Però se parliamo di gusti, devo dire che apprezzo ogni genere con le sue regole: si può amare Kafka, Marquez, Cortazar e Bulgakov e allo stesso tempo adorare Dostoevskij, Fitzgerald, Steinbeck e Boll. Per non parlare di Faulkner e della capacità di Hemingway e Saramago di farti apprezzare tutte le tonalità di una lingua. O della differenza tra Eliot e Joyce da una parte e Auden e Richard Yates dall’altra, dove leggere diventa un piacere infinito.
E infine, mi piacciono moltissimo Buzzati e Calvino: Il deserto dei tartari e Un generale in biblioteca sono tra le cose che mi piace rileggere spesso qui e là.

Sei molto giovane eppure la tua produzione è già molto vasta: c’è la letteratura nel tuo futuro o vorresti dedicarti a qualche altra cosa più in là?
Mi piacerebbe fare il filosofo da cabaret oppure essere Garfield, per stare sempre acciambellato comodamente su una poltrona. Quella sì che sarebbe una vita gratificante, o almeno immagino.

***

La Voce

di Muhammad Aladdin

Traduzione dall’arabo di Barbara Benini

Come tutti i profeti, e gran parte dei pazzi, iniziò a sentire una voce, dal tono sicuro, che gli parlava. Quando le profezie raggiunsero un certo grado di affidabilità, la voce era ormai diventata parte della sua routine, un’abitudine. Della follia crescente, invece, non fece mai parola con nessuno.

All’inizio si preoccupò, pensando di meritarsi un posto in una buona struttura psichiatrica e per un po’ fu assillato da quest’idea, ma poi, confortato e rassicurato dai ricordi, si convinse che chi più, chi meno, abbiamo tutti bisogno di un posto in una qualche struttura psichiatrica.

La mattina, si abituò a non rispondere al saluto della Voce per evitare di incappare negli occhi sospettosi della moglie che, un giorno, con noncuranza, gli aveva detto che non c’era nulla di strano se uno parlava da solo e applicò la stessa regola con i colleghi e gli amici con cui si sedeva al caffè.

Provò a prendersela comoda mentre se ne stava chiuso in bagno e si mise a discutere con la Voce della filosofia di vita che gli esponeva, che a dire il vero meritava di essere presa in considerazione. Tuttavia, quando si rese conto che uno dei suoi figli avrebbe potuto udire la conversazione – che deve essere per forza durata molto, dopo quel lungo silenzio – con uno sforzo sovrumano cercò di non risponderle.

La Voce suonava così familiare, così calma e virile; fu sul punto di credere che si trattasse di suo padre, sebbene di carattere non fosse mai stato un tipo particolarmente calmo. Cercò di concentrarsi sulle frasi insolitamente lunghe. Spesso la Voce diceva cose che avevano un che di familiare: in ogni suo racconto o memoria del passato, poteva ritrovare se stesso o la sorella, che suo padre aveva così tanto amato; o lo zio, che si logorò assieme al fratello in dispute senza senso; o sua madre e la complicata vita matrimoniale dei suoi genitori. Tra loro, come per ogni coppia sposata, era impossibile capire bene dove finisse l’odio e dove invece iniziasse l’amore. Tuttavia, non ci fu nulla da fare: come unico risultato della profonda concentrazione, ottenne di versarsi addosso il tè bollente, finendo così per suscitare qualche sorriso malizioso tra i colleghi, che avevano notato la macchia umida sulla patta.

La Voce parlava di cose che, se pur semplici, gli parevano essere le più importanti.

La storia delle biciclette, per esempio: questi cerchi che vanno in giro uno dietro l’altro, il chiacchiericcio dei perni con i cerchioni, le loro ombre, che il più delle volte seguono la ruota, la catena che avvolge la corona, mossa dai pedali. E come l’essere umano sia più evoluto del leone, dato che il re della giungla non conosce le biciclette. Ci fu pure una viva discussione in proposito che, come era ovvio che fosse, fu a caro prezzo: il suo capo andò su tutte le furie, quando lesse nel suo ultimo rapporto che uno dei dipendenti era “un pedale” e lo rimproverò per l’eccessiva rudezza con cui aveva trattato, in un documento ufficiale, un collega.

Comunque la Voce non parlò mai di una relazione familiare né mai vi accennò, ma lui continuò a chiedersi se si trattasse del padre, che finalmente aveva trovato un po’ di tranquillità. Si disse che questa Voce sembrava molto più scaltra e provò un certo imbarazzo ad ammettere che il genitore, solo dopo la morte, aveva trovato pace e saggezza.

E così visse più sollevato, se pur immerso nei debiti contratti per comprare a rate una nuova automobile, cosa di cui il figlio maggiore fu, almeno inizialmente, e per motivi che possiamo comprendere, molto felice. Almeno fino a quando non capì che suo padre non passava un minuto del tempo libero al di fuori della nuova auto. Si accollava volentieri l’onere che comporta possedere una macchina in un quartiere piccolo borghese. Prese a occuparsi di tutte le commissioni di parenti e amici, pagava le rate e il carburante, pur di essere lasciato ogni giorno solo, in compagnia della Voce, sicuro che a quel modo non avrebbe mai più scritto “pedale” in un documento ufficiale, né si sarebbe versato altro tè bollente sulla patta dei pantaloni.

A dirla tutta, la moglie iniziò a guardare con sospetto a queste lunghe e frequenti assenze e così si mise a frugargli nelle tasche, a controllargli le chiamate e i messaggi del cellulare ma, sebbene qua e là avesse scovato il nome di qualche donna, non trovò mai niente di sostanziale e come era naturale che fosse, cominciò a vagliare altre possibilità. Forse si era messo a fumare hashish. La stessa cosa che doveva aver pensato il poliziotto che si era trovato davanti un cinquantenne, che gesticolava e parlava da solo, seduto al volante della sua macchina, parcheggiata in una via laterale. Quando gli aveva chiesto di favorire i documenti, aveva capito che l’uomo era del tutto sobrio ed era rimasto veramente di stucco, ma aveva dovuto lasciarlo andare, senza fargli niente.

Alla fine la moglie, stanca di fingere, l’aveva affrontato di petto: “Si può sapere che diavolo fai, quando sparisci con la macchina?”

L’uomo, come ogni impiegato di basso livello e con una certa anzianità di servizio, trovò difficile rispondere a una domanda formulata in un modo così diretto. “Me ne sto là fuori, seduto a pensare!”

Naturalmente questa sua risposta divenne una sorta di sfottò, che lo perseguitò per il resto della vita: usato dal figlio maggiore, sicuramente per vendetta; narrato con divertimento dalla moglie ai suoi amici e pure lui se lo ripeteva tra sé, per riderci su. Tuttavia non permise mai a questa storia di avere la meglio, durante le lunghe conversazioni con la Voce, Voce che, ormai, aveva preso il controllo su di lui, fungendo da lente d’ingrandimento sulla vita e offrendogli una chiara e comprensibile prospettiva. Ad esempio Magdy, il suo collega, morto in una maniera così assurda. Gli venne addosso un furgone, mentre stava attraversando la superstrada, per andare al lavoro e non si fece nulla: qualche graffio e pochi lividi. Ebbene, mentre stava sorseggiando il succo di canna da zucchero, che si era concesso per ringraziare Dio di quanto era stato compassionevole e misericordioso con lui, si concentrò così a fondo su questo pensiero da non prestare attenzione a come il succo gli scendeva in gola, così si soffocò e morì. La Voce gli disse che il modo in cui era morto, riassumeva l’essenza di Magdy: era stato un uomo così semplice che non c’era voluto un pesante furgone per ucciderlo. E così aveva capito chi fosse veramente Magdy, solo dopo la sua morte.

Dunque, quando la Voce decise, un giorno, improvvisamente, di sparire, ne fu visibilmente turbato.

In principio ridusse la durata dei suoi interventi poi, per un giorno intero, non si fece sentire. Si faceva viva di tanto in tanto, il tono gradualmente si smorzava, i silenzi, tra una frase e l’altra, si allungavano, finché improvvisamente si interruppe, lasciando una frase a metà, mentre lui se ne stava seduto sul terrazzo ad ascoltarla, circondato da dei parenti che erano venuti a trovarlo. Cercò di mascherare l’ansia, ma si ritrovò a sbraitare contro la moglie, perché non gli aveva messo lo zucchero nel tè. Gli ospiti non compresero e così sua moglie, che non trovò mai una ragione a quel lento declino e non capiva perché si chiudesse sempre nel suo studio, appena tornava dall’ufficio. Sua moglie non seppe mai perché lasciò il lavoro per starsene sdraiato sul letto, come un macigno, senza aprir bocca, senza rispondere al tocco della sua mano (ma ne fu felice il figlio maggiore, che poté prendere la macchina ogni sera).

Quando la moglie trovò le pillole di sonnifero, non riuscì a spiegarsi perché mai suo marito le usasse, semplicemente perché non sapeva di una voce, che un tempo gli era stata amica e poi si era placidamente dileguata, per tornare, vibrante, nel sonno. E infatti l’uomo doveva andarla a cercare ogni notte, provando ad allungare quei momenti, solo per tornare a rivedere il mondo come lo vedeva con la Voce. Iniziò ad alzarsi dal letto solo per vagare, intontito, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, per mantenersi in vita o per liberarsi l’intestino e poter ritornare al suo prolungato viaggio.

Poi venne il giorno in cui il sonnifero lo cullò in un sonno ancora più lungo, smise di bere e mangiare e cominciò a fare i bisogni nel letto. Ciò che sconvolse sua moglie non furono le feci e l’urina che sporcavano il corpo del marito, ormai magro come uno stecchino, né la barba incolta o i piedi screpolati. Ciò che maggiormente la sconvolse fu quel sorriso felice, un ampio sorriso, sinceramente felice, che aleggiava sul volto del suo cadavere.

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