lunedì 19 maggio 2014

Editoriaraba - È il momento del romanzo arabo?

A quanto pare sì. Tutti ne parlano, tutti li vogliono. Ma fino a quando?

Ad esempio di recente, la notizia della vittoria all’ultimo premio per la narrativa araba dello scrittore iracheno Ahmad Saadawi con il suo romanzo “Frankenstein a Baghdad” è stata ripresa da The New York Times, The Guardian, al-Jazeera e The New Yorker.

In Italia ne hanno parlato ANSAmed e Il Sole 24ore e la Repubblica e il Corriere, non solo recentemente, si sono occupati e si occupano di romanzi e scrittori arabi.
Certo, ha fatto notizia che Saadawi fosse il primo iracheno a vincere il premio, ma c’entra anche il fatto che il libro sia un romanzo interessante, originale e fuori dagli schemi classici del romanzo arabo a cui probabilmente la maggior parte del pubblico internazionale dei lettori pensa, quando immagina la letteratura araba tout-court.

Lo scrittore libanese Jabbour Douaihy alla fiera del libro di Abu Dhabi aveva ben detto che “questo è il momento del romanzo arabo”, riferendosi alla gran quantità di manoscritti (più di 100) arrivati dalle case editrici arabe agli organizzatori del’IPAF lo scorso anno. Segno che gli editori hanno capito che l’interesse per i romanzi arabi è cresciuto a livello internazionale (e d’altronde al vincitore vanno 50.000 dollari più una traduzione assicurata in inglese.

Per quanto riguarda l’Italia, dell’aumento della curiosità e dell’interesse verso questa letteratura (in particolare quella scritta in arabo) da parte dei lettori e delle case editrici italiane aveva parlato sull’Indice online lo scorso settembre Elisabetta Bartuli, traduttrice e docente dell’Università di Venezia:

Esattamente come sta succedendo per il mercato anglofono, l’editoria italiana nell’ultimo quinquennio ha dimostrato una crescente attenzione per la narrativa di fiction tradotta dall’arabo. In Italia così come in Gran Bretagna e Stati Uniti, la pubblicazione di romanzi originariamente scritti in arabo sta conquistando una sua quota stabile e acquisendo una discreta visibilità.

L’Italia quindi come la Gran Bretagna e la Francia che, con la casa editrice Actes Sud le cui traduzioni in francese seguono quasi a ruota l’uscita dell’originale in arabo, e meglio degli Stati Uniti, dove – secondo quanto riferito di recente da un traduttore ed esperto di letteratura araba statunitense – l’interesse verso questi libri c’è, ma in misura di gran lunga minore rispetto ai tre paesi europei citati, e quindi le traduzioni e i traduttori scarseggiano.

I rischi insiti in questo aumentato interesse naturalmente ci sono, a cominciare da quel “forensic interest” di cui ha parlato lo scrittore e traduttore iracheno Sinan Antoon in proposito al recente exploit dei romanzi arabi presso il pubblico occidentale.

In altre parole: il romanzo arabo usato come strumento per diagnosticare i mali della regione araba. O ancora, leggere i romanzi arabi per alcuni corrisponde ad una ricerca tutta personale e psicologica nei dedali dell’idea di esotico. Si legge questa letteratura per captare un bagliore, carpire un’immagine, addentrarsi nei meandri dell’Oriente, sì fascinoso e allettante, quanto lontano e diverso da noi. E nella diversità, lo sappiamo bene, l’uomo (medio?) si sente rassicurato: il diverso da me, in quanto diverso da me, fa di me un uomo/mondo migliore/superiore.

E la ribalta ottenuta sul proscenio internazionale dai paesi arabi durante e dopo le rivolte arabe rappresenta un’insidia in questo senso: quanti romanzi (saggistica a parte) con l’orrenda fascetta “Il libro rivelatore della primavera araba”, “Il romanzo che ha anticipato la rivoluzione egiziana” sono stati pubblicati negli ultimi mesi? E badate, molti erano testi validissimi che io personalmente avrei letto anche senza lo strillo acuto e querulo che quella fascetta insistente lanciava dagli scaffali delle librerie, fisiche e online.

Di nuovo Antoon, che oggi vive e lavora negli Stati Uniti, aveva pubblicato questo tweet a dicembre:

Quando un paese arabo viene distrutto, l’Occidente “illuminato” ne scopre la cultura e si precipita a tradurre i suoi libri.

Abbiamo ancora bisogno di questa “molla” per convincere gli editori italiani a tradurre dei libri che da soli, senza bisogno di copertine orientaliste, fascette promozionali, conflitti “etnici” alle spalle, sono perfettamente in grado di reggere il confronto con romanzi provenienti da altre geografie e altre latitudini?

E se “il momento del romanzo arabo” non fosse solo un momento, ma la norma?

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