sabato 25 febbraio 2012

I Fiori di Kirkuk


di Fariborz Kamkari

Ci sono libri che si leggono soprattutto per quello che c’è dentro e altri che si leggono soprattutto per quello che sta fuori, il mondo al quale rimandano. E’ questo credo il caso de’ I fiori di Kirkuk che nasce, al contrario, dalla ‘traduzione’ dell’immagine in parola scritta da parte del regista Fariborz Kamkari. Un libro che segue il film almeno nel processo di formazione. Scrivo queste righe senza ancora aver visto il film, malgrado la suggestione dell’immagine e dell’immaginario scattato dall’aver conosciuto alcuni degli attori della pellicola e aver visto alcuni spezzoni, non si possa ignorare.
La storia d’amore spinta fino al sacrificio e per certi aspetti ai limiti dove il sogno, si confonde con l’utopia e la follia, non è a mio parere che la pelle più esterna, la veste con la quale si presenta il romanzo che resta un confronto di uomini dove lavorano insieme ideologie, valori diversi e amori concomitanti. E’ uno studio acuto senza nessuna pedanteria intenzionale della mente, maschile più che femminile, dei due protagonisti Shenko e Moktar, avversari sul campo e in amore, ma anche funzionali uno all’altro e stranamente complici.
E’ anche un romanzo sociale nella misura in cui si nutre dello sfondo di un conflitto bellico Iran-Irak, etnico tra arabi, curdi e turcomanni, ma anche di fronti culturali, l’occidente del nord e il medio oriente del sud del mondo; e ancora di famiglie ancorate, anzi abbarbicate alla tradizione delle quale i singoli sono spesso prigionieri ma incapaci di staccarsi con personalità distoniche che rovesciano i valori andando a volte alla deriva.
E’ questo a mio parere l’aspetto più interessante della protagonista femminile, Najla, figlia di iracheni rifugiatesi a Roma che torna spinta dall’amore in Irak: il conflitto di valori e di messaggi che nella sua giovinezza hanno scelto per lei, rendendola un terreno di gioco, quello dei suoi genitori – intellettuali che rivelano un essere di coppia monolitico e chiuso rispetto alla stessa figlia – e lo zio che diventa tutore, un campo di sperimentazioni. Per questo Najla conoscerà la deriva e dovrà riannodare un filo difficile, andando in ordine sparso, per ricostruirsi e costruire una sua identità per quanto articolata e forse ancora non definita alla fine del libro. Il suo andarsene verso un altrove, un dovere più grande che la chiama potrebbe essere anche una metafora.
Credo che il libro, con il suo andare e venire tra il passato e presente, che obbliga il lettore ad un lavoro di ricucitura a volte faticoso, abbia soprattutto il merito di aprire agli occidentali il mondo di Kirkuk, nella sua armonia disarmonica, non solo in termini storici e politici ma come un simbolo.
E’ un libro che si snoda come un film senza che l’attenzione cali e che non ha un finale, o meglio il finale rimanda ad altro. Un buon modo di porre domande.

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