Lettere da Agadez
Racconti
sahariani
di Emilio Borelli
Carnet de bord di un appassionato
del Sahara e della lezione del deserto, minuzioso e minuto come una mappa di
navigazione e per questo talora il libro può risultare faticoso per chi non ha
alcuna idea dei luoghi. Il messaggio centrale arriva però dritto al cuore: il
deserto è la terra della natura che guida la civiltà, del gruppo che prevale
sul singolo – questione di sopravvivenza – dell’adeguamento quale regola di
vita. Il deserto lo si può affrontare da turisti e si viene respinti, tenuti ai
margini come pensare di conoscere un animale visitandolo allo zoo; oppure da
viaggiatori, immergendosi, con l’umiltà dell’ascolto. E’ il luogo del nomadismo
dello spostarsi “anche senza un obiettivo preciso. Ma non per questo senza una
ragione”. Andare altrove è aprire una nuova possibilità, magari migliore. C’è
forse una ragione intima e ontologica dello spostarsi in quanto tale per colui
il quale la vita è un viaggio, all’insegna dell’irrequietezza. Borelli sono
decenni che frequenta il Sahara, tornandoci attratto da un richiamo
irresistibile, da quando era studente di architettura, fino alle nuove fasi
della sua vita; da sperimentatore a guida, come una metafora esistenziale. Da
neofita, assaggiatrice del deserto e frequentatrice del Maghreb, ho provato una
profonda nostalgia in queste pagine nonché il piacere dei piccoli aneddoti,
degli excursus linguistici, della conferma che le tappe del viaggio sono
disegnate non da obiettivi, luoghi e monumenti – non principalmente almeno – quanto
dagli incontri umani, come testimonia l’ultimo capitolo che dà il titolo all’opera.
Il centro del viaggio è l’Algeria che purtroppo non conosco se non attraverso
le parole e le emozioni dei miei amici algerini, con delle ‘incursioni’ in
Niger, Libia e in Tunisia, il paese dove piano piano sto mettendo radici. Non
vorrei cadere nella tentazione di fare un riassunto: il libro non è una storia,
è uno spezzone di vita, un pezzo di viaggio, da vivere per assaporare il clima
dell’avventura nel deserto, fuori dalla rotte tracciate e definite; dove l’imprevisto
può essere una possibilità foriera di ricchezza. Mi piace quel inserto ben
dosato di francese, di arabo, di berbero e di dialetti locali, che non solo
arricchisce alcuni passaggi dove la traduzione perderebbe di intensità; quanto
lascia intravedere il clima di contaminazione dei popoli proprio attraverso la
molteplicità delle lingue che vi si parlano e che a mio parere resta una delle
esperienze centrali di ogni viaggio. Tra l’altro il sincretismo linguistico e
religioso svela molte componenti della storia di quei popoli che hanno vissuto
di stratificazioni successive e inserzioni non sempre pacifiche, dai Peuls ai
berberi, ai touareg. Altro elemento nel quale mi ritrovo pienamente la distanza
e la lontananza dell’Europa dalla vicina sponda sud del Mediterraneo, con
particolare riferimento alle vicende e alle tensioni politico-religiose che
hanno caratterizzato l’Algeria degli anni 1991-1992. “Lettera da Agadez” non è
un saggio e neppure una guida, anche se lo diventa suo malgrado, è una
testimonianza, resa per la difficoltà di raccontare il Sahara in modo
scientifico e storico, oggettivato, come sottolinea l’autore. “Il Sahara è per
forza il tuo, e solo il tuo, nemmeno quello del tuo compagno di viaggio, del
tuo vicino di seggiolino gli assomiglia, il tuo è comunque il più bello e
basta!...Il Sahara non è un’equazione, non è algebra”. In qualche modo – sembra
dire - è più utile scrivere sul Sahara che leggere del Sahara. E ancora “Bisogna
andarci comunque, scendere al Sahara per capire, bisogna andarci con curiosità,
l’umiltà se già non c’è viene poi, non servono tanti manuali, viene abbastanza
in fretta sa sé. Sennò sei un cretino, ed il Sahara con quel tipo di debolezza
è inclemente”. Un’osservazione che mi ha fatto impressione perché mi sono
ritrovata, ma mi è costato tempo e fatica capirlo, è che ci sono luoghi e
viaggi che mettono paura non per quello che incontri ma perché sono un
appuntamento al buio…con te stesso. Ci sono luoghi – e i deserti sono di questa
specie – che fanno da specchio e ti costringono a guardarti dentro. E’ questo
però a mio parere il rischio che si deve correre in un viaggio, perdersi per
ritrovarsi, senza voltarsi indietro. E’ per questo che ci sono luoghi, ognuno
ha una seconda patria, più viscerale perché scelta, dove si può andare infinite
volte indipendentemente da cosa c’è da vedere. Ecco perché l’autore prende in
giro coloro i quali gli chiedono, senza scherno, Cosa ci va a fare l’ennesima
volta del Sahara? Cosa ci trova? A volte anche un sasso insignificante, come
dice Borelli, può dischiudere un mondo. Ognuno di noi trova la propria via. E’
proprio per questo che è essenziale il modo di cercarla. C’è chi segue, più comodo,
la scia di chi precede (le piste segnate); chi procede più o meno lasciandosi
portare; chi facendo uno zig zag, ovvero una media dei tracciati già segnati,
perché ci si nutre anche delle esperienze degli altri.
Lettere da Agadez
Racconti sahariani
di Emilio Borelli
Polaris
per le vie del mondo
13,00 euro
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