venerdì 30 novembre 2012

2012 Crisi del Capitalismo? di Enea Franza

Contro la crisi globale, una nuova etica dell’agire economico
A colloquio con l’Economista Enea Franza

Un saggio di economia, con un excursus storico di pregio, uno stile piano ma non troppo divulgativo, preciso come la didattica ma anche un documento di ricerca autentica. L’autore è animato da spirito critico e con grande umiltà dichiara di lasciare agli economisti di professione analisi e tesi. Questo suo saggio è piuttosto un susseguirsi di domande non retoriche – come fa notare Gianfranco Fini nella prefazione – che cerca altresì, senza mettersi in cattedra, di offrire delle risposte. Il focus sulla crisi attuale che dura dal 2007-2008 e il confronto con molte delle crisi precedenti, è lo spunto per una proposta politica più che strettamente economica, per nulla scontata, né genericamente ottimista o buonista. La democrazia è l’unico strumento in grado di sostenere un’economia sana e l’invito è ‘temperare’ la globalizzazione che ha affidato tutto il potere al capitale, favorendo i più ricchi e aprendo sempre più la forbice tra i diversi livelli sociali. Con il risultato di strangolare la cosiddetta classe media che è l’unica che sostiene una democrazia compatibile con il libero mercato. Forzando un po’ la mano e spingendo l’autore a darci una ricetta di base, emerge la necessità di una ridistribuzione del potere agli stati rendendo il capitale solo uno strumento della politica e non viceversa. Interessanti, a mio parere, soprattutto le considerazioni inerenti l’impatto che l’immigrazione ha sull’economia. Anche su questo argomento l’invito è alla moderazione, fuori da ogni interpretazione ideologica o meglio sentimentalistica (ndr). La preoccupazione di Enea è che un’immigrazione selvaggia alimenti un nuovo schiavismo umano, inaccettabile moralmente, creando oltre tutto danni all’economia.

Come nasce questo nuovo libro?
«Dalla domanda finale che mi ero posto nel saggio precedente, Crack finanziario: “Il capitalismo finirà?”. Avevo necessità di capire le prospettive, dopo che, nella crisi originatasi nel 2007, gli Stati erano intervenuti per coprire i buchi nelle casse delle banche e mi sono chiesto, in caso di mancato sviluppo economico, se sarebbe stato messo sotto scacco il capitalismo stesso».

Stiamo vivendo una crisi congiunturale oppure una crisi sistemica?
«Le crisi economiche sono una costante del capitalismo. Gli studiosi di economia hanno calcolato che, dal 1600 ad oggi, si sono avute più di quaranta crisi internazionali: mediamente una ogni otto anni. Nel mio libro spiego in dettaglio quelle storicamente più rilevanti: dalla crisi dei banchieri fiorentini del 1343, alla “crisi dei tulipani” in Olanda del 1637; dalla “bolla dei mari del sud” del 1720, alle crisi più recenti, come ad esempio quella delle dot-com, generata dall’euforia per la new economy di Internet.
Tra le tante, voglio ricordare in particolare il cosiddetto “Panico dei banchieri”, la prima grande crisi globale del Novecento. Nell’ottobre del 1907 l’indice azionario di Wall Street perse il 37%. In tutta l’America folle di risparmiatori diedero l’assalto agli sportelli delle banche e il sistema del credito rimase paralizzato per mesi. La storia economica spiega così le origini di quel disastro: l’eccesso di investimenti immobiliari, il credito facile e le manipolazioni dell’alta finanza: le stesse cause che sono all’origine della crisi attuale!»

A cosa è dovuta la continua instabilità del sistema capitalistico?
«La teoria economica, nel tentare d’individuare l’origine delle crisi, distingue le crisi che si generano sul lato reale dell’economia da quelle che nascono a livello finanziario per poi espandersi alla produzione e al commercio. Le crisi che hanno origine dalla parte reale dell’economia sono poi distinte in crisi da shock della domanda e crisi da shock dell’offerta. Ma il quadro storico non sarebbe completo se non citassimo anche le cosiddette “crisi atipiche”, come quella del “Lunedì nero” del 1987, la cui responsabilità fu attribuita ai sistemi informatici delle transazioni di Borsa, che erano ancora in fase di prima applicazione: accadde così che vendite inizialmente contenute furono amplificate dagli ordini automatici, alimentando in modo esponenziale una discesa che altrimenti avrebbe potuto essere “fisiologica”».


Come si sviluppano le crisi?
«Alla base delle crisi finanziarie c’è un’ondata di ottimismo, originata molto spesso da un’evoluzione favorevole dell’economia reale, conseguente a fattori come lo sviluppo di nuove tecnologie o la scoperta di nuove risorse. Le aspettative positive contribuiscono ad una sottovalutazione del rischio e ad una facile apertura verso il credito, sia da parte delle istituzioni creditizie, sia da parte degli investitori. Tutto ciò genera forti incrementi di valore sui mercati dei titoli. Ma ad un certo punto può accadere qualcosa, che non sempre è spiegabile razionalmente: improvvisamente quei valori, che fino al giorno prima erano considerati realistici ed in base ai quali venivano conclusi centinaia di contratti, non sono ritenuti più credibili. E s’innesca la spirale della crisi».

È possibile prevedere una crisi?
«Non è assolutamente facile capire se, in un dato momento, lo sviluppo di un’economia è sostenibile, oppure è portatore esso stesso dei germi che determineranno la futura crisi.
Prendiamo il caso della “Grande Depressione” degli Anni Trenta. Ebbe inizio Giovedì 24 Ottobre 1929, con un crollo delle quotazioni di Wall Street di oltre il 13%. Il crollo fu dovuto all’esplodere di una bolla speculativa, che coinvolgeva principalmente le nuove industrie che stavano sorgendo in quegli anni. Eppure l’euforia che aveva portato alla lievitazione dei prezzi dei titoli in Borsa era più che giustificata: a dimostrarlo c’erano gli ordinativi di nuove macchine che arrivavano alle industrie e la domanda di beni e servizi sui settori connessi. Un circolo virtuoso, che sembrava non dover finire mai, almeno fino a quel fatidico Giovedì nero».

Il Presidente della Camera Gianfranco Fini, nella prefazione al libro, sottolinea che non tutti gli investimenti sul mercato finanziario sono a carattere speculativo e che non bisogna dimenticare che, senza l’accumulazione del capitale finanziario, non ci sarebbero risorse per le imprese che operano nell’economia reale.
«È proprio così; infatti, non si tratta di mettere in discussione il capitalismo, ma di ricostruire un equilibrio tra le forze della finanza, della produzione e della politica, per evitare che in futuro possano ripetersi crisi della portata di quella attuale».
E veniamo alla crisi attuale, di cui siamo, nostro malgrado, vittime e testimoni...
«Le analisi economiche confermano che la crisi del sistema bancario del 2007, che ha colpito in prevalenza i paesi dell’area Nord atlantica (in primis USA e Gran Bretagna), si è trasformata in shock globale nel settembre 2008, generando un crollo del commercio mondiale di una rapidità e gravità mai registrate in precedenza. Tra i principali fattori all’origine della crisi, il ruolo delle banche e la crescita smisurata dei nuovi strumenti finanziari. In Italia, per nostra fortuna, la tempestività degli interventi, la particolarità della struttura economico-sociale e le maglie strette della regolamentazione bancaria (unite ad una maggiore attenzione alla assunzione del rischio da parte delle banche) hanno consentito, come era già accaduto negli Anni Trenta, di attenuare l’impatto della crisi».

Quali sono le cause che hanno determinato un effetto negativo sull’economia, soprattutto dal punto di vista occupazionale?
«Utilizzando un linguaggio forse un po’ datato, parlerei forse di “conflitto di classe”. Mi riferisco alla nuova immigrazione, molto diversa dalle precedenti. Si tratta dell’immigrazione proveniente dall’Est Europa, caratterizzata da un livello di formazione alto, con persone direttamente impiegabili nel mondo dei servizi e del’industria. L’effetto è stato duplice: da una parte sull’occupazione dei ceti medi, per la concorrenza dei prezzi; dall’altra, con una pressione sulla rendita immobiliare, che ha innalzato i prezzi, provocando una bolla immobiliare, e questo non solo in Italia.»

Al momento mi pare che l’emergenza immigrazione riguardi soprattutto il Nord Africa.
«Certamente non è da trascurare questa immigrazione che proviene dal sud del Mediterraneo, di natura molto diversa, che va ad impattare sul livello sciale più basso, generando una serie di conflitti nell’ambito dei servizi di base alla persona, del piccolo artigianato e della manovalanza. Il problema è anche di ordine strettamente sociale, perché favorisce i ricchi, che possono sfruttare così i propri simili, utilizzando quella parte di forza lavoro non regolarizzata e che quindi non contribuisce al reddito del paese».

Nel breve periodo, qual è a suo parere lo scenario destinato ad imporsi?
«È impossibile fare previsioni, perché siamo in presenza di un coacervo di fattori inediti: la globalizzazione economica, la questione ecologica, l’immigrazione, ai quali si aggiunge il comportamento di milioni di persone che, come hanno dimostrato le recenti rivolte in Nord Africa e Medio Oriente, non sono più disposte ad essere massa di manovra dello sviluppo.
Purtroppo nei consessi internazionali, nonostante i reiterati proclami sulla necessità di nuove regole, non si è approdati finora a risultati concreti, mentre si delinea un nuovo fenomeno inquietante: le grandi istituzioni finanziarie, salvate a spese dei bilanci pubblici, hanno iniziato a speculare sull’insolvenza degli Stati che si sono indebitati per salvarle! Al punto che alcuni economisti si domandano: ci stiamo incamminando verso la bolla del debito pubblico, la madre di tutte le crisi finanziarie?
È una tattica che potrebbe rivelarsi suicida perché, se dovesse ripetersi una bolla come quella del 2008, non ci sarebbero più i bilanci pubblici a fare da ammortizzatori della crisi, e tutto il sistema finanziario – titoli, debiti, monete – rischierebbe di crollare come un castello di carta, trascinando con sé l’economia reale».

Una crisi epocale di questo genere potrebbe portare al collasso del capitalismo?
«Non necessariamente. Al momento non esiste un modello economico così efficiente e condiviso da poter sostituire il capitalismo, il quale ha dimostrato di avere grandi capacità di autorigenerazione, sebbene imponga un prezzo da pagare».

Qual è la sua proposta per affrontare nel concreto la crisi?
«Riconquistare la democrazia, nel senso di temperare la globalizzazione, che ha affidato tutto il potere di controllo sociale al capitale e che ora va ridistribuito. Ad esempio, sul fronte dell’immigrazione, se non viene controllata, come ho accennato come poco fa, si rischia un nuovo schiavismo, che è oltretutto dannoso per l’economia. È importante, invece, favorire, semmai, un’immigrazione integrata, e arginare il rischio di sparizione della classe media, che è l’unica a garantire la tenuta sociale».

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