domenica 2 settembre 2012

"I quattro canti di Palermo"


I quattro canti di Palermo
di Giuseppe Di Piazza

I quattro canti o cantoni nei quali è divisa Palermo sono lo scenario e l’anima di un racconto autobiografico sotto forma di romanzo nel quale il dentro e il fuori si intrecciano indissolubilmente: la storia e la crescita di un cronista che esordisce al quotidiano “L’Ora” nel 1979, un giornalismo pronto a sporcarsi le mani, anzi le suole delle scarpe, per andare in prima linea, in trincea. Sono gli anni della seconda guerra di mafia, della mattanza come la chiama l’autore, Giuseppe Di Piazza, giornalista, attualmente del “Corriere della Sera”, palermitano al suo primo romanzo, che ho incontrato in una puntata di Radiolivres, condotta da Vittorio Macioce, durante il Festival delle Storie 2012 nella Valle di Comino. Alcuni spunti della conversazione mi hanno invogliata a prendere il libro, a cominciare dalla forma del romanzo reportage. Tra gli spunti della sua conversazione, da uomo di mondo, consapevole di essere un buon intrattenitore, il tema della nostalgia, quasi un desiderio al quale si anela come misura dell’intensità del vivere, ancorando l’anima ai ricordi, serbatoio di energia anche se qualche volta dolorosi. E’ una dimensione che mi appartiene profondamente e che mi ha fatto una certa impressione leggere in un uomo. Un poeta del quale non ricordo il nome disse che la malinconia è la dolcezza di essere triste e mi sembra una buona definizione. In effetti per anni ho fuggito il dolore e oggi penso che peggiore sia l’anestesia. Condivido anche l’inevitabile accumularsi della nostalgia, sotto il peso dei ricordi e degli anni che scorrono. E’ il prezzo dell’intensità della vita. Lo sfondo storico, reso che inserzioni in corsivo, ben dosate che aiutano a calarsi nell’atmosfera senza mai cedere alla tentazione storica o didascalica. Quello che colpisce è l’impatto simile ad uno tsunami che la vita pubblica in un clima di guerra provoca nel mondo interiore. Una generazione di giovani palermitani distrutti dalla guerra di mafia che esorcizzano in una vita parallela, fatta di amore, sesso e musica, di notti incantate, per non soccombere. Mi fa una certa impressione almeno per due motivi. Perché è quello che ho tentato di scrivere in “Tunisi, taxi di sola andata”, rinunciando al saggio per sposare l’idea di una storia di emozioni, di un punto di vista: quello di un obiettivo quasi sbagliato sulla traiettoria di un proiettile. Tra l’altro parlando del mio assaggio di dittatura in Tunisia ho sempre fatto questo esempio: il mio coinvolgimento era dovuto al di là della sensibilità personale al fatto che alloggiassi da una persona che si occupava di diritti umani; un po’ come essere sposata con un cronista o un magistrato che a Palermo si occupi di mafia. Tra l’altro mia madre mi ha sempre detto che la guerra – lei che non l’ha mai vissuta - peggiora le persone, che spesso chi è impegnato in prima linea nel sociale, in politica ha bisogni di divagazioni trasgressive per sopravvivere. Non  mi è mai stato chiaro ma Di Piazza spiega molto bene il concetto. “Palermo era perlopiù assassinio, strame di corpi, di idee, di speranza. Vorrei dire che prendevamo dosi di amore e sesso per sconfiggere la paura”. E aggiunge che questa è la prima forma di lotta antimafia collettiva. Questa battaglia prevede la forza dell’amicizia tra colleghi, la voglia di evadere nell’amore, fra trasgressione e una freschezza che mi fa dire: erano pur sempre bravi ragazzi. E’ l’episodio centrale che mi ha lasciata con le lacrime trattenute a stento e che mi ha decisa – lo confesso – a leggere il libro: Sophie. Lo spunto è banale: ha il nome della mia protagonista. Per una storia ambientata in Tunisia è quasi banale; per una palermitana, molto più originale. La Sophie di Giuseppe è normanna. La storia d’amore nata perché “Puntavo alla vita senza morte” si rivelerà un inganno, gettando me più del protagonista nello sconforto. Mi ero affezionata a quella ragazza e mi chiedevo tra le pagine che scorrevano veloci se potesse essere la stessa della mia storia, vent’anni dopo, con tutta la diversità che separano quasi una generazione. La scoperta di un buco nero non mi ha fatta arrendere e mi sono detta che deragliare quando si è molto giovani è una colpa ammissibile, che proprio per questo sarebbe diventata quello che io ho immaginato, puntando a sua volta alla vita. Ma no, ho dovuto accettare la realtà, spesso più amara di ogni immaginazione. Allora ho spostato l’obiettivo sul narratore sul suo chiedersi la ragione di non aver capito. Quante volte me lo sono chiesta anch’io, quante volte mi sono addossata la responsabilità della deriva altrui. Emerge accanto alla Palermo livida, di gelida follia; la leggerezza come antitesi alla superficialità; e una grande lezione di umiltà, di autoironia del nostro protagonista, non così scontata in un uomo, all’esterno conquistatore, che si scopre nelle sue paure, incertezze, con una certa timidezza. Nondimeno curioso, instancabile frequentatore della vita, da mordere con bianchi denti voraci, per dirla con D’Annunzio. Uno spaccato di un generazione finalmente libera – dopo la rivoluzione del Sessantotto – non ancora colpita, se non appena sfiorata, dalla gabbia dell’Aids, con il sogno di vincere per costruire un mondo migliore conquistando una libertà interiore, anche al prezzo di molte notti insonni. La scrittura è fluida, il ritmo incalzante del cuore e della vita, da cronista attento, con il siciliano che fa capolino senza appesantire l’eloquio ed esplosioni di poesia, improvvise, che sorgono dal discorso quotidiano, spiazzando il lettore, sostenute da una cultura assaporata come anche da uno stile che ricorda alcune delle migliori pagine di Kerouack.




I quattro canti di Palermo
di Giuseppe Di Piazza
Romanzo Bompiani
Euro 17,00

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