I quattro canti di Palermo
di Giuseppe Di Piazza
I
quattro canti o cantoni nei quali è divisa Palermo sono lo scenario e l’anima di
un racconto autobiografico sotto forma di romanzo nel quale il dentro e il
fuori si intrecciano indissolubilmente: la storia e la crescita di un cronista
che esordisce al quotidiano “L’Ora” nel 1979, un giornalismo pronto a sporcarsi
le mani, anzi le suole delle scarpe, per andare in prima linea, in trincea. Sono
gli anni della seconda guerra di mafia, della mattanza come la chiama l’autore,
Giuseppe Di Piazza, giornalista, attualmente del “Corriere della Sera”,
palermitano al suo primo romanzo, che ho incontrato in una puntata di
Radiolivres, condotta da Vittorio Macioce, durante il Festival delle Storie
2012 nella Valle di Comino. Alcuni spunti della conversazione mi hanno
invogliata a prendere il libro, a cominciare dalla forma del romanzo reportage.
Tra gli spunti della sua conversazione, da uomo di mondo, consapevole di essere
un buon intrattenitore, il tema della nostalgia, quasi un desiderio al quale si
anela come misura dell’intensità del vivere, ancorando l’anima ai ricordi,
serbatoio di energia anche se qualche volta dolorosi. E’ una dimensione che mi
appartiene profondamente e che mi ha fatto una certa impressione leggere in un
uomo. Un poeta del quale non ricordo il nome disse che la malinconia è la
dolcezza di essere triste e mi sembra una buona definizione. In effetti per
anni ho fuggito il dolore e oggi penso che peggiore sia l’anestesia. Condivido
anche l’inevitabile accumularsi della nostalgia, sotto il peso dei ricordi e degli
anni che scorrono. E’ il prezzo dell’intensità della vita. Lo sfondo storico,
reso che inserzioni in corsivo, ben dosate che aiutano a calarsi nell’atmosfera
senza mai cedere alla tentazione storica o didascalica. Quello che colpisce è l’impatto
simile ad uno tsunami che la vita pubblica in un clima di guerra provoca nel
mondo interiore. Una generazione di giovani palermitani distrutti dalla guerra
di mafia che esorcizzano in una vita parallela, fatta di amore, sesso e musica,
di notti incantate, per non soccombere. Mi fa una certa impressione almeno per
due motivi. Perché è quello che ho tentato di scrivere in “Tunisi, taxi di sola
andata”, rinunciando al saggio per sposare l’idea di una storia di emozioni, di
un punto di vista: quello di un obiettivo quasi sbagliato sulla traiettoria di
un proiettile. Tra l’altro parlando del mio assaggio di dittatura in Tunisia ho
sempre fatto questo esempio: il mio coinvolgimento era dovuto al di là della sensibilità
personale al fatto che alloggiassi da una persona che si occupava di diritti
umani; un po’ come essere sposata con un cronista o un magistrato che a Palermo
si occupi di mafia. Tra l’altro mia madre mi ha sempre detto che la guerra –
lei che non l’ha mai vissuta - peggiora le persone, che spesso chi è impegnato
in prima linea nel sociale, in politica ha bisogni di divagazioni trasgressive
per sopravvivere. Non mi è mai stato
chiaro ma Di Piazza spiega molto bene il concetto. “Palermo era perlopiù
assassinio, strame di corpi, di idee, di speranza. Vorrei dire che prendevamo dosi
di amore e sesso per sconfiggere la paura”. E aggiunge che questa è la prima
forma di lotta antimafia collettiva. Questa battaglia prevede la forza dell’amicizia
tra colleghi, la voglia di evadere nell’amore, fra trasgressione e una
freschezza che mi fa dire: erano pur sempre bravi ragazzi. E’ l’episodio
centrale che mi ha lasciata con le lacrime trattenute a stento e che mi ha
decisa – lo confesso – a leggere il libro: Sophie. Lo spunto è banale: ha il
nome della mia protagonista. Per una storia ambientata in Tunisia è quasi
banale; per una palermitana, molto più originale. La Sophie di Giuseppe è
normanna. La storia d’amore nata perché “Puntavo alla vita senza morte” si
rivelerà un inganno, gettando me più del protagonista nello sconforto. Mi ero
affezionata a quella ragazza e mi chiedevo tra le pagine che scorrevano veloci
se potesse essere la stessa della mia storia, vent’anni dopo, con tutta la
diversità che separano quasi una generazione. La scoperta di un buco nero non
mi ha fatta arrendere e mi sono detta che deragliare quando si è molto giovani
è una colpa ammissibile, che proprio per questo sarebbe diventata quello che io
ho immaginato, puntando a sua volta alla vita. Ma no, ho dovuto accettare la
realtà, spesso più amara di ogni immaginazione. Allora ho spostato l’obiettivo
sul narratore sul suo chiedersi la ragione di non aver capito. Quante volte me
lo sono chiesta anch’io, quante volte mi sono addossata la responsabilità della
deriva altrui. Emerge accanto alla Palermo livida, di gelida follia; la
leggerezza come antitesi alla superficialità; e una grande lezione di umiltà,
di autoironia del nostro protagonista, non così scontata in un uomo, all’esterno
conquistatore, che si scopre nelle sue paure, incertezze, con una certa
timidezza. Nondimeno curioso, instancabile frequentatore della vita, da mordere
con bianchi denti voraci, per dirla con D’Annunzio. Uno spaccato di un
generazione finalmente libera – dopo la rivoluzione del Sessantotto – non ancora
colpita, se non appena sfiorata, dalla gabbia dell’Aids, con il sogno di
vincere per costruire un mondo migliore conquistando una libertà interiore,
anche al prezzo di molte notti insonni. La scrittura è fluida, il ritmo
incalzante del cuore e della vita, da cronista attento, con il siciliano che fa
capolino senza appesantire l’eloquio ed esplosioni di poesia, improvvise, che
sorgono dal discorso quotidiano, spiazzando il lettore, sostenute da una
cultura assaporata come anche da uno stile che ricorda alcune delle migliori
pagine di Kerouack.
I quattro canti di Palermo
di Giuseppe Di Piazza
Romanzo Bompiani
Euro 17,00
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