venerdì 20 luglio 2012

“Il mercenario di Gheddafi”



di Mariù Safier
La prima cosa che mi ha colpito del libro è stato venire a sapere che si trattava di un romanzo sul cui sfondo c’era la Libia, non solo quella emozionale, personale ma storica, attuale e politica con inserzioni documentate e varie dall’excursus storico che ripercorre con brevi frammenti la storie del paese dai tempi dei romani, a divagazioni culturali fino a incursioni nella cronaca. Il libro è però a tutti gli effetti un romanzo e anche la parte documentata è posta, talora giustapposta, come un racconto, un aneddoto che una voce narrante - forse quella della stessa protagonista, Babette - rievoca. Mi ha interessato questo doppio piano perché è la stessa scelta che ho fatto, pur in uno stile completamente diverso, con il mio “Tunisi, taxi di sola andata” e rispetto al quale qualcuno prima di leggerlo aveva sollevato perplessità e, poi curiosità. Due paesi confinanti, al tempo delle rivolte del Maghreb; due storie di donne che il dolore ha ferito; due viaggi che mescolano l’oggi e un passato molto lontano che ci tocca da vicino, quello della conquista romana e quello di un’Italia più prossima, al tempo del Fascismo nel libro di Mariù Safier quando la Libia era considerata uno scatolone di sabbia; al tempo della fuga degli ebrei livornesi e della presenza forte dei siciliani, nel mio libro.  E ancora una riflessione sul sacro, sull’Islam che affiora, sulla vicinanza e lontananza con il nostro mondo, comunque con la ricerca attenta di studiare e non avvalersi del sentito dire.
Lo stile di Mariù è fresco, coni l candore di un diario e la ferocia del dolore. La storia affiora a poco a poco dalla corrispondenza dei due amanti, Babette e Geppy e poi un andare e venire nel tempo che apprendiamo dalla narrazione della protagonista che adagio ci disvela la storia di un amore malato attraverso il quale troverà se stessa e le proprie ragioni con la determinazione a scavare il tunnel verso la luce per risorgere.
E’ la figura del padre, manesco, distratto, finto che l’ha umiliata ad averla per sempre prostrata alla vita. Quel padre che avendo perso troppo giovane, a 14 anni per un incidente d’auto, non ha avuto il tempo di recuperare prima di affacciarsi alla sua vita di donna.
L’evoluzione incompiuta, peggio, distorta la porterà ad una scelta autodistruttiva dalla quale ad un certo punto riuscirà ad uscire cercando la sopravvivenza, senza leggerezza, né drammaticità ma semplicemente con il dolore di una ferita che può rimarginarsi ma senza poter nascondere la cicatrice. E’ quanto si intuisce. E c’è un’amarezza in più: Babette non ha ancora perdonato. Per chi sa amare però il perdono è una condizione per rinascere e di amore verso se stessi prima che verso l’altro. Si capisce quindi l’augurio nelle pagine introduttive della scrittrice che svelano anche che il romanzo è costruito su una storia vera. In fondo la vita ha più fantasia di noi e la realtà è una grande ispirazione: In questa pagine accorate, dove la scrittrice lascia i suoi personaggi fuoriuscire senza guidarli né tanto meno condizionarli, c’è l’impegno di una donna che con la scrittura ‘cura’ in qualche modo un’altra donna perché forse la sua storia può servire ad altri.
Tra le pieghe di questa scrittura che ha momenti di intenso lirismo mai ‘carico’, mai sdolcinato ma asciutto e profondo, voglio ricordare un messaggio di speranza nelle ultime pagine: “Lungo la strada qualcuno mi ha detto: Babette non oggi, non domani, ma più avanti, scoprirai che questo non-amore non ha solo preso e preteso da te; ti ha dato qualcosa. Quando lo avrai trovato, sorriderai”.
La mia della guarigione in fondo Babette l’ha già trovata, avendo scoperto di aver amato un mercenario e quindi dopo aver dolorosamente appreso di aver coltivato “lo zucchero per raccogliere fiele” ha anche provato l’inversione dell’amore nell’odio e quindi di aver maturato il distacco ed essere sfuggita alla follia.
Da contorno le lettere al miele, appiccicose, dell’uomo che incanta, incatena e trascina nel gorgo; per poi rivelare il proprio lato oscuro nella violenza delle parole e dei litigi cercando un alibi del “te lo avevo detto”, “non ho mai nascosto le miei intenzioni”. Ed evidentemente a questo crescendo fa da contraltare la negazione dell’evidenza di ogni amore totale e malato. Altro contorno, senza nessuna volontà di sminuirlo, l’amicizia preziosa di una ragazza che non giudica, non curiosa, consapevole e impotente come chiunque abbia provato ad aiutare una persona innamorata, pronta a scontarsi contro un muro di gomma senza arrendersi e destinata a fallire nell’obiettivo a breve; a seminare la stima dell’affetto per curare le ferite e risorgere.
Interessante la Libia del deserto e delle tribù, delle tre regioni principali – la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan – la sua musica che è narrazione, invito alla preghiera e alla lotta, non puro piacere evocativo; l’incrocio degli interessi economici che hanno nel tempo portato la Libia sotto le diverse influenze fino all’arrampicata del Colonnello e al suo trionfo senza battaglia con il passaggio dalla monarchia alla Repubblica in una notte.
Un libro che emoziona e fa male perché mette il dito nella piaga di quella che dovrebbe essere l’anticamera della felicità e spesso diventa il preludio dell’inferno e un documento interessante alla fine del quale quasi senza accorgersene si sono appresi molti aspetti di un Paese che ci è tanto vicino e conosciamo poco e male. Delicato e forte ad un tempo.

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