sabato 25 febbraio 2012

Il silenzio del colore nero


di Serena Frediani

Un bel libro, a cominciare dal titolo suggestivo che per me è stata la calamita che mi ha attratto. La copertina conferma questa scelta, decisa, forte e raffinata ma anche essenziale, come il nero appunto, che contrasta con il sorriso aperto e dolcemente malizioso di Serena, la scrittrice, ma è un gioco che si ripropone nel libro tra innocenza e trasgressione, dolcezza e violenza e un tentativo di composizione. Forse è banale definire un libro “bello” ma pensando alla cultura classica e la bellezza è armonia e questo libro per me è questo, intreccio di componenti che stanno tutte in equilibrio, appunto dalla copertina, al titolo, allo stile, all’originalità della storia. Pensando al libro come a una rete di libri e soprattutto come rete di persone, non posso non pensare al nostro incontro grazie alle nostre piccole creature. Con “Prima che sia Buio”, il colore diventa metafora di uno stato, tanto che si sarebbe dovuto intitolare Rosso quasi bianco e il nero è nell’allusione del buio preceduto dal rosso dell’incandescenza del tramonto e nell’essere cruciale di un momento che è spartiacque. Anche le due copertine risuonano con una donna in bianco e rosso su sfondo nero.
Una storia di tutti i giorni che poi svela qualcosa di incredibile, forse un po’ torbido, senza però nessun compiacimento ed è questa l’originalità: sta nel modo di guardare la vita, anzi di penetrarla e di accorgersi che una persona qualunque, forse un po’ sciatta, che sceglie di fare la modella di un pittore in crisi, affetto da “inappetenza creativa”, apparentemente solo perché ha bisogno di lavoro, di un lavoro qualunque, ci apre un mondo infinito e riesce anche a scoprirci come solo l’intimità può fare.
E’ un libro che non delude mai, in crescendo, come raramente sono i romanzi di cui spesso trascuro la fine. Gli spunti tanti ma anche tutti riconducibili a quello che io chiamo il viaggio che non ha termine, l’unico per cui valga la pena vivere: la conoscenza dell’altro. E’ questa, sembra, l’unica strada che può portare alla felicità. Il protagonista si chiede più volte che cosa sia e si risponde ad un certo punto riconoscendo quel momento nel quale non si vorrebbe nulla di più e c’è un misto di pace, di armonia e eccitazione. E’ che a volte la si scopre solo nel ricordo.
Un ragazzo – che dovrebbe essere un uomo vista l’età – borghese, in lotta e ribellione con un padre affermato architetto che ama omologando gli altri a sé, sceglie la via dell’arte dove l’evasione diventa deriva. Il rapporto forte e profondo con una madre debole che porta nel giovane pittore il rifiuto ad amare per timore di essere posseduto e annullato dall’altro e così la fuga dalle responsabilità. Poi l’incontro, occasionale e a suo modo carnale anche se per una lunga fase platonicamente con una giovane donna che nel suo non essere bella, nel suo essere dolente porta alla luce le proprie ferite e nell’umiltà di chiedere aiuto provoca nell’altro la possibilità di mettersi a sua volta a nudo e in gioco. Resta la sfida dopo aver conosciuto il dolore, di farsene carico, di prendere le responsabilità del bisogno dell’altro e le redini della propria vita per provare a costruire una felicità. E’ di grande sottigliezza l’esame del percorso e della rivoluzione interiore che interessa il protagonista per non pensare che la scrittrice abbia lavorato a lungo su sé stessa, arrivando a conoscere bene i meccanismi della rabbia e dell’orgoglio tra padre e figlio; di complicità dannosa tra madre e figlio; di negazione per paura tra uomo e donna; di arte come fuga da sé prima che di laboratorio del sé.
Considero questa storia a lieto fine anche se ha un epilogo drammatico perché nella mia ottica chi comprende con il cuore oltre che con la mente e ha occasione di dividere l’amore e di riconoscerlo, ha trovato la strada e individuato la meta, anche se magari la manca. Non sempre tutto è perduto ed è un testo che dà speranza al di là del fatto che la vita se ne vada da un’altra parte, perché fino all’ultimo si può sempre farcela. Il padre e il figlio si ritrovano e a quel punto il dolore e lo strappo di anni si risolve come con la nascita si dissolve e si dimentica il dolore del parto, anzi si scopre che la sofferenza ci ha fatti crescere anche per gli errori.
L’autrice è una fine conoscitrice della psicologia che sgorga con naturalezza, senza pedanteria dalle sue pagine: Serena si immerge nella vita in tutte le sue forme e ha una vera curiosità e pietà per l’essere umano come quando fa dire al protagonista: “non era colpa di mio padre se per lui amare voleva dire livellare, rendere gli oggetti del suo amore come lui li desiderava…”. Riconoscendo le debolezze altrui si impara a perdonarsi e ad accogliere l’altro se animato da sincerità, come nell’incontro finale.
Assolutamente accurato l’accompagnamento alla confessione della coprotagonista, Flavia, che si mette a nudo in senso stretto svelando i segni del proprio dolore, quasi umiliandosi nel senso nobile, dando prova di umiltà, gridando a suo modo il bisogno di aiuto che spesso l’orgoglio di nascondere la propria fragilità non riesce ad avere. E’ il colore nero che in sé ha tutti i colori solo che li ha assorbiti senza riuscire a restituirli, “non sa parlare”. E sono tanti i particolari, come la delicatezza, la speranza e il sostegno per ricostruirsi che possono dare dei bambini.

Il silenzio del colore nero
Serena Frediani
Avagliano
15,00 euro

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