Una psicoanalita a Teheran
di Gohar Homayounour
prefazione di Abbas Kiarostami
RaffaelloCortina
Editore
Ho
aperto questo libro spinta dal fascino di una civiltà che non conosco di
persona ma attraverso amici sposati con persiani e colleghi che vi hanno lavorato;
sulla scia del titolo che eccheggia Leggere
Lolita a Teheran della Azar Nafisi o Viaggio
di nozze a Teheran di Azadeh Moaveni, tre scrittrici, tutte e tre con la voglia
di sottolineare il nome della capitale nel titolo e ancora con una vita divisa
tra l’Iran e gli Stati Uniti, così come la loro identità. I primi due testi mi
sono piaciuti molto. Questo mi ha delusa a dire il vero, forse perché l’ho
aperto con troppe aspettative, a cominciare dalla prefazione, di un regista che
amo particolarmente. Probabilmente il libro, ben scritto, tocca un tema che
conosco molto a vicino e probabilmente – mi confesso – mi ha coinvolta troppo.
Mi turba in particolare l’incertezza della psicoanalista, i suoi dubbi, le sue
libere associazioni, il suo essere persona e anche un po’ paziente di sé
stessa. Provo in tal senso comprensione e tenerezza ma sono finita per
giudicarne la professionalità sentendola in balìa di troppi pensieri, prima del
libro. Inoltre c’è qualcosa di indefinito nel testo, al quale non mi sono riuscita
ad abbandonare, quindi non ne ho vissuto la fascinazione, quasi un’incertezza
tra un diario intimo e qualche nota saggistica, che disegna un percorso
incerto, come potrebbe essere quello di un diario appunto ma che intende dare
risposte.
Ho sentito un’incongruenza tra questi
due piani che non mi hanno fatto essere complice della donna protagonista, né
osservatrice di uno spaccato sociale: è possibile la psicoanalisi in Iran? La
sua autobiografia che funge da filo conduttore anche se ricostruita a tratti
parte dalla scelta di rientrare nel proprio paese d’origine nel quale cerca di
farsi ascoltatrice attenta e mediatore tra una disciplina, l’analisi appunto,
d’importazione occidentale, europea con Freud e poi statunitense per il suo
sviluppo, cercando di tradurre nella lingua e nella tradizione del proprio
popolo altre categorie. Questo gli è suggerito anche dal mestiere del padre,
traduttore di Milan Kundera, nel quale l’autrice riconosce un grande maestro,
che personalmente ho amato molto ma trovo decisamente sopravvalutato dalla
critica sull’onda di un successo emozionale. La declinazione è la leggerezza e
la pesantezza dell’essere rispetto a un’inclinazione della quale devono
liberarsi l’Occidente e l’Oriente, a bene vedere due facce della stessa medaglia.
Il nucleo fondamentale del testo – e il messaggio migliore – citato da
Kiarostami è che la sofferenza è dolore ovunque e che le categorie mentali,
forse io direi del sentire, sono universali. Per questo l’analisi è possibile
in ogni luogo e a maggior ragione in un popolo che ha nel dna il narrare e
ormai il bisogno di confessarsi. Altro passaggio interessante è la situazione
virginale dello psicoanalista ad ogni primo incontro con un nuovo paziente
rispetto al cui disagio e dolore non può essere che in una situazione di
vicinanza. Su questo bisognerebbe approfondire perché è molto lontano dalla
teoria di Freud, al di là del Transfert, oltre che pericoloso. Forse il piano
del viaggio esistenziale e una teoria sull’esercizio della psicoanalisi e della
necessità di mediazione culturale contestuale – parlo per esperienza in alcuni
paesi arabi del Maghreb – sono due argomenti per due libri diversi.
Una psicoanalita a Teheran
di Gohar Homayounour
prefazione di Abbas Kiarostami
RaffaelloCortina
Editore
13,50 euro
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