lunedì 3 giugno 2013

Quando Teheran è un titolo



Una psicoanalita a Teheran
di Gohar Homayounour

prefazione di Abbas Kiarostami

RaffaelloCortina Editore

Ho aperto questo libro spinta dal fascino di una civiltà che non conosco di persona ma attraverso amici sposati con persiani e colleghi che vi hanno lavorato; sulla scia del titolo che eccheggia Leggere Lolita a Teheran della Azar Nafisi o Viaggio di nozze a Teheran di Azadeh Moaveni, tre scrittrici, tutte e tre con la voglia di sottolineare il nome della capitale nel titolo e ancora con una vita divisa tra l’Iran e gli Stati Uniti, così come la loro identità. I primi due testi mi sono piaciuti molto. Questo mi ha delusa a dire il vero, forse perché l’ho aperto con troppe aspettative, a cominciare dalla prefazione, di un regista che amo particolarmente. Probabilmente il libro, ben scritto, tocca un tema che conosco molto a vicino e probabilmente – mi confesso – mi ha coinvolta troppo. Mi turba in particolare l’incertezza della psicoanalista, i suoi dubbi, le sue libere associazioni, il suo essere persona e anche un po’ paziente di sé stessa. Provo in tal senso comprensione e tenerezza ma sono finita per giudicarne la professionalità sentendola in balìa di troppi pensieri, prima del libro. Inoltre c’è qualcosa di indefinito nel testo, al quale non mi sono riuscita ad abbandonare, quindi non ne ho vissuto la fascinazione, quasi un’incertezza tra un diario intimo e qualche nota saggistica, che disegna un percorso incerto, come potrebbe essere quello di un diario appunto ma che intende dare risposte.
Ho sentito un’incongruenza tra questi due piani che non mi hanno fatto essere complice della donna protagonista, né osservatrice di uno spaccato sociale: è possibile la psicoanalisi in Iran? La sua autobiografia che funge da filo conduttore anche se ricostruita a tratti parte dalla scelta di rientrare nel proprio paese d’origine nel quale cerca di farsi ascoltatrice attenta e mediatore tra una disciplina, l’analisi appunto, d’importazione occidentale, europea con Freud e poi statunitense per il suo sviluppo, cercando di tradurre nella lingua e nella tradizione del proprio popolo altre categorie. Questo gli è suggerito anche dal mestiere del padre, traduttore di Milan Kundera, nel quale l’autrice riconosce un grande maestro, che personalmente ho amato molto ma trovo decisamente sopravvalutato dalla critica sull’onda di un successo emozionale. La declinazione è la leggerezza e la pesantezza dell’essere rispetto a un’inclinazione della quale devono liberarsi l’Occidente e l’Oriente, a bene vedere due facce della stessa medaglia. Il nucleo fondamentale del testo – e il messaggio migliore – citato da Kiarostami è che la sofferenza è dolore ovunque e che le categorie mentali, forse io direi del sentire, sono universali. Per questo l’analisi è possibile in ogni luogo e a maggior ragione in un popolo che ha nel dna il narrare e ormai il bisogno di confessarsi. Altro passaggio interessante è la situazione virginale dello psicoanalista ad ogni primo incontro con un nuovo paziente rispetto al cui disagio e dolore non può essere che in una situazione di vicinanza. Su questo bisognerebbe approfondire perché è molto lontano dalla teoria di Freud, al di là del Transfert, oltre che pericoloso. Forse il piano del viaggio esistenziale e una teoria sull’esercizio della psicoanalisi e della necessità di mediazione culturale contestuale – parlo per esperienza in alcuni paesi arabi del Maghreb – sono due argomenti per due libri diversi.


Una psicoanalita a Teheran
di Gohar Homayounour
prefazione di Abbas Kiarostami
RaffaelloCortina Editore
13,50 euro

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