martedì 13 gennaio 2015

“A cavallo del vento”, fiabe armene raccontate da Sonya Orfalian

Ilaria Guidantoni Domenica, 11 Gennaio 2015

Un mondo onirico e per la dimensione europea molto lontano dalle fiabe conosciute anche se gli archetipi restano gli stessi, trasfigurati, strampalati per il nostro modo di sentire e a volte difficilmente traducibili. Talora si resta disorientati perché difficile comprendere il percorso, la simbologia e la battuta, e nello stesso tempo affascinati da uno stile e da luoghi immaginifici. Una grande operazione di memoria nel segno del dover di ricordare un popolo che ha rischiato di essere annientato.

Questa scrittrice, artista e traduttrice, nata in Libia da genitori armeni dove ha vissuto la sua infanzia come rifugiata, all’età di undici anni, dopo il colpo di stato di Gheddafi, ha trovato asilo a Roma dove vive e lavora; si è battuta per la memoria di un popolo dalla cultura ricca e sconosciuta, già autrice di un libro sulla cucina armena. Con A cavallo del vento ci propone in una versione, probabilmente originale, il mondo delle fiabe armene, cuore in qualche modo di questa tradizione. La cucina, come la poesia epica come il mondo del racconto che originariamente nasceva dalla tradizione orale - tramandata di generazione in generazione dagli ashugh, rapsodi itineranti - dai simboli più profondi di un popolo, come anche dal suo sentire e dal vissuto quotidiano sono la culla di una civiltà che ne disegnano i connotati fondamentali. E’ per questo che è interessante questo libro, forse lettura più per adulti che per bambini, a mio parre ancora più delle fiabe europee, si inserisce in una tradizione di racconti e di leggende. Un approccio singolare e suggestivo verso una cultura pressoché sconosciuta eppure molto ricca. Come racconta in un’intervista Sonya, che si è dedicata per la più parte della sua vita alla memoria, “nella diaspora la tradizione delle pietanze più diffuse nelle case armene si è paradossalmente conservata con maggior forza: era necessario, per poter sopravvivere malgrado tutto, conservare e tramandare il ricordo, rievocare i sapori e gli odori della casa d’infanzia, ripetere i gesti antichi delle nonne per mantenerli in vita. Anche la cucina della nostra casa - come per molte famiglie in esilio - era il luogo dove tutte le guerre e i risentimenti razziali avevano fine; il luogo in cui le pietanze di popoli in eterna lotta tra loro convivevano pacificamente”.

La recensione integrale su Saltinaria.it

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